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La città è la gente
Gli spazi di immunità di Margherita Moscardini

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La critica dei processi urbani della città neoliberale contemporanea è al centro della ricerca artistica di Margherita Moscardini. Se lo spazio pubblico, la strada in senso lato, è il risultato più evidente di processi economici e sociali globali che tendono a irrigidirne la disciplina e la regolamentazione emarginando i più fragili, l’artista cerca nelle manifestazioni del conflitto urbano nuove possibili rappresentazioni e vie di fuga dalle maglie strette della concezione securitaria dell’urbano. La ricerca di Moscardini parte sempre da un’osservazione della realtà, dei fattori sociali e antropologici, architettonici e urbani, giungendo spesso a prelevare porzioni paradigmatiche del tessuto sociale e urbano per trasformarle in sculture o disegni. In questo senso, i suoi lavori aprono interrogativi profondi sul senso dello spazio pubblico, sulla relazione tra le soggettività e le architetture, tra gli spazi costruiti e i modi formali e informali di abitarli e su come, potenzialmente, le città possano essere riscritte dalle persone.

L’erosione della dimensione pubblica di piazze e strade conduce l’artista a riflettere sulle pratiche di contestazione e conflittualità come agenti istitutivi di spazio pubblico. Come afferma Judith Butler, «quando la moltitudine si riunisce per rivendicare lo spazio pubblico, l’ambiente materiale diventa supporto dell’azione e allo stesso tempo è riconfigurato dall’azione»[1].

Un esempio ne è Istanbul City Hills. On the Natural History of Dispersion and States of Aggregation(2013), in cui la ricerca parte proprio dall’osservazione delle trasformazioni urbane, dalle demolizioni dei quartieri realizzate per operazioni speculative e di gentrificazione. Gli stessi detriti vengono usati dall’artista come metafora di queste trasformazioni, riconfigurando un paesaggio creato per dispersioni e nuove aggregazioni, in grado così di interpretare i tumulti e le dinamiche che decostruiscono e ricostruiscono le geografie urbane e che qui assumono dimensioni plastiche[2], come afferma la stessa artista: «la folla è un organismo che si plasma sul costruito: diventa il positivo del negativo che sono i vuoti urbani; e che il singolo si isoli o si tenga stretto al corpo dell’organismo, non cambia la sua sostanza di dispositivo, che occupando il vuoto misura, mostra e riconfigura in continuazione l’architettura. Diventa lui stesso architettura»[3].

Proprio durante il periodo di lavoro a Instanbul, in cui l’artista ha avuto modo di osservare da vicino le contestazioni di piazza e la rivoluzione di Gezi Park, ha maturato la convinzione che il proprio lavoro dovesse essere un dispositivo di interazione con la realtà.

Il tema del diritto alla città, all’abitare, è la tensione costante che muove l’artista in buona parte della sua ricerca e produzione, trasformando le sue sculture in spazi, in luoghi dallo statuto extraterritoriale, in aperta contraddizione con le norme internazionali sul diritto d’asilo e, più in generale, con la concezione moderna degli Stati-nazione. D’altronde «La città è la gente, come sostiene Hannah Arendt, e la gente si muove, le città si muovono e sfidano i desueti confini imposti dalle mappe geopolitiche e sta anche agli artisti creare dispositivi critici, manomissioni del presente e varchi in una realtà paradossale in cui viene leso il diritto delle persone di spostarsi, migrare e di non appartenere a nessuna nazione»[4].

Partendo dall’osservazione di uno dei campi profughi più grandi del Medio Oriente, il campo di Za’atari in Giordania e studiandone la fisionomia degli insediamenti, Moscardini ha riconosciuto nel cortile con fontana una tipicità delle architetture spontanee ideate dagli abitanti in base ai bisogni e alle loro necessità. Questo spazio autocostruito è stato mappato, ridisegnato dall’artista nelle sue varie configurazioni, fino a ottenere un catalogo di modelli che finora hanno assunto la conformazione di disegni o sculture in scala. Il catalogo è pensato come un dispositivo commerciale: l’ente pubblico europeo che desidera ricostruire uno dei modelli di cortile con fontana in scala 1:1, paga i diritti d’autore al progettista siriano che a Za’atari ha costruito la fontana originale. Ma il punto centrale di tutto questo progetto molto articolato e di lungo periodo è l’iter di trasformazione di queste sculture in spazi extraterritoriali.

Moscardini immagina la scultura come la creazione di uno spazio di immunità attraverso la definizione di atti formali che svincolano le opere dalle sovranità territoriali ridando, idealmente e fattivamente, all’arte la possibilità di diventare uno spazio libero, salvo. Ispirandosi al principio romano del res communes omnium, l’artista ricrea le condizioni affinché le sue opere siano come le zone franche d’alto mare, stati dell’utopia, in cui abitare come ‘stranieri residenti’[5]. Ne è un ulteriore esempio uno dei suoi ultimi lavori, Bethel Chapel’s Annex (2023) in cui l’artista si connette all’eccezionale storia della celebrazione ininterrotta di una messa per circa tre mesi da oltre mille ministri della chiesa Bethel Chapel all’Aia, per salvare la famiglia armena Tamrazyan, rifugiatasi da un mandato esecutivo di espulsione dal Paese. L’artista crea uno spazio supplementare, annesso giuridicamente e idealmente alla Bethel Chapel sotto forma di un tappeto di cinquecento metri quadri, uno spazio mobile e itinerante vincolato formalmente alla cappella, che può tornare a essere utilizzato ovunque e a rappresentare uno spazio salvo, che interroga l’umanità delle leggi e ne allarga le maglie attraverso un atto di disobbedienza, reinventando la possibilità di un luogo e un tempo non normati.

Il lavoro sullo spazio pubblico nell’opera di Margherita Moscardini, pertanto, si configura in maniera differente rispetto a quelle ricerche emerse negli ultimi venti anni che si sono espresse direttamente e fisicamente nelle piazze o nelle strade. La sua è una pratica mossa da una tensione, comune anche ad altri artisti della sua generazione, che guarda al campo urbano come ambito di ricerca per riconfigurare una dimensione utopica o comunque liberata, in cui l’urbano si ricostituisce in un altrove, diventa materia e metafora di una prospettiva radicale, di una rifondazione dell’esistente. 


[1] J. Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, 2017.

[2] Nell’ambito dello stesso progetto l’artista ha realizzato anche diversi disegni a inchiostro.

[3] D. Bigi, Margherita Moscardini. Istanbul City Hills, in «Arte e Critica», LXXV-LXXVI, 2013, pp. 118-119.

[4] M. Trulli, Studio visit a Margherita Moscardini, <https://quadriennalediroma.org/margherita-moscardini/> (5 luglio 2023).

[5] Moscardini in merito cita spesso i saggi di Donatella Di Cesare, come ad esempio: Stranieri residenti, Bollati Boringhieri, 2017.