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Camminare ovunque
La ricerca di immagini in Giorgio Andreotta Calò

Giorgio Andreotta Calò, Volver, 2008, courtesy ZERO…, Milano, e Studio Giorgio Andreotta Calò, Venezia, foto Davide Conconi

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Il lavoro di Giorgio Andreotta Calò si caratterizza per alcuni temi ricorrenti che si ricompongono in modalità diverse, secondo progetti complessi caratterizzati da una lunga e continua riflessione a livello tecnico, immaginativo e semantico. L’architettura, ripensata nella decostruzione di Gordon Matta-Clark: aprire i muri, creare varchi tra pieno e vuoto, ricomporre relazioni in una ricerca di punti di vista per ripensare il senso dell’edificio, la sua stabilità e instabilità. Dalle prime ricerche come in Sunset Boulevard (2004-2006), all’esperienza nell’ambito del corso della Fondazione Ratti con Marjetrica Potrč nel 2006, tenutosi in un edificio prossimo alla demolizione[1]; dal bivacco fino alla simbolizzazione delle architetture tramite installazioni di luce e suoni, a Napoli nel 2005, per la Biennale dei Giovani Artisti, oppure a Sarajevo nel 2006, attraverso un’iconica e potente immagine del Parlamento distrutto, illuminato al suo interno da una luce rossa, alba e tramonto.

La messa in discussione del punto di vista, come nel soppalco costruito tra il 2006 e il 2007 negli Atelier della Fondazione Bevilacqua La Masa, utilizzato da Calò come spazio di lavoro e progettazione: elevarsi per aumentare lo spazio a disposizione dell’occhio umano. Va ricordato il volo in barca con una gru su Lambrate, nel video Volver del 2008, o ancora lo spazio riflesso della grande capriata nel Padiglione Italia della Biennale di Venezia (2017), e l’installazione al MAXXI (Premio Italia Arte Contemporanea 2012), nata dalla volontà di portare dentro lo spazio un punto di vista panoramico sul quartiere Flaminio, visibile dalle vetrate del museo.

L’oscuramento dello spazio, il buio come camera oscura naturale per immergersi entro sé stessi e nutrire il lavoro. Squarciano questo spazio luci solitarie come torce, fari, fuochi. In questo mood nasce la camminata in notturna con Luca Lo Pinto, un’intervista approfondita, indispensabile per conoscere l’artista e corredata da frame delle strade di Roma[2]. Calò scende giù nel buio con i minatori del Sulcis e li riprende camminare di notte verso il mare; i palazzi paiono prendere fuoco come a Bologna, in Monumento ai caduti del 2010…

Questi tre punti si alimentano delle azioni di attraversamento fisico dello spazio, della Storia, della memoria. Poi la camminata nella laguna sud del 2007, immagine herzoghiana, omaggio a Venezia e alla forza generatrice dell’acqua, la deriva a Sarajevo da Est a Ovest seguendo il sole, oppure a Limpias in Spagna, dopo il ritrovamento nel 2007 di una stampa dell’omonimo Cristo, alla ricerca dell’origine di quell’immagine. L’azione produce tensione e conduce verso una visione che abbracci lo spazio occupato tra nascita e morte. I processi attivati da Calò aspirano a una forma di monumentalità epica. L’energia dell’artista in queste fasi è individuale: si cammina da soli.

L’atto del camminare come pratica artistica annovera una lunga serie di protagonisti; con Marina Abramović e Ulay in The Great Wall Walk (1988) diventa tensione tra corpi, in Richard Long scultura e fotografia; in Vito Acconci, Sophie Calle, Mona Hatoum scoperta dell’altro, incontro, denuncia pubblica; in Hamish Fulton, la cui visione è forse più concettuale, esso non può essere restituito[3].

Di questa difficoltà Calò sembra consapevole: possiamo produrre polaroid, appunti, diari, note… Poi serve tempo, aspettare. Ripensiamo all’opera della Biennale di Venezia del 2011, il cammino da Amsterdam a Venezia; una voce, Ritorno. Quel lavoro stimolò un piccolo dibattito. Sappiamo che il lavoro doveva essere più complesso: allagare il giardino di Scarpa per creare una immagine «che ribaltasse l’architettura e il cielo», ma l’operazione non fu autorizzata. Oppure all’attraversamento delle strade di Los Angeles, nel 2010, all’interno del bagagliaio di un’auto, producendo impressioni dirette dello spazio urbano attraverso un foro stenopeico, alla ricerca di immagini periferiche. L’obiettivo è raggiunto o si tratta di esercizio in vista di un’opera più matura?

Altra sfida: il passaggio al cammino collettivo. Parliamo del percorso da Genova a Ventimiglia, e di nuovo a Genova, svolto nell’estate del 2013 e nato nel ricordo del G8, vissuto in prima persona dall’artista il 20 luglio 2001: ritrovare la città nella notte del 21 dopo dodici anni. Si è compiuto il percorso simbolico immaginato dall’artista nei corpi e nelle menti dei partecipanti? Non c’è unanimità. Di quell’attraversamento rimane una pubblicazione corale con i materiali dei partecipanti prodotta in tre copie.

Un confronto: nel 1999, alla Fondazione Antonio Ratti, Hamish Fulton conduce un workshop, accompagnando un gruppo di giovani artisti in un lungo e ardito itinerario, ripetuto più volte, che mette a dura prova i partecipanti. Cosa è rimasto di questo movimento collettivo? I corpi dei singoli. Proprio Fulton afferma «Un oggetto non può competere con un’esperienza» e Angela Vettese, nel commentare questa frase conclude che la vita la si vive ‘in proprio’, anche se la si conduce in compagnia. Il tuo corpo governa la tua mente, che si tiene aggrappata a esso per non soccombere[4]. Dobbiamo accettare che quell’esperienza rimarrà nello scrigno della memoria psicofisica dell’artista e dei partecipanti. Eppure, con il più recente progetto Gloria[5] l’incomunicabilità eroica, anche questa, potremmo dire, monumentale, del camminatore, sembra diventare qualcos’altro.

«Siamo Linee», scrive Tim Ingold, in un suo bellissimo libro[6]. Il camminare si pone come condizione ideale per orientare corpo e mondo, mente e respiro verso una visione ‘atmosferica’ del disegno, della forma, del vedere e vedersi. Con Gloria, un tragitto verso l’Aquila svolto in senso contrario al propagarsi delle onde sismiche del terremoto che colpì la zona nel 2016, lascia la dimensione prometeica per incontrare la natura lì dove agisce come forza che muta la Storia, lungo una faglia che è segno di eventi sovraumani e apocalittici. L’azione produce senso nelle linee organiche di relazioni e tensioni simbiotiche. Non a caso proprio una linea incide la copertina e segna come una cicatrice la pelle delle pagine scritte. Sulle strade tracciamo disegni in forma di vortice, afferma Ingold, che ci avvolgono. Il diario, quasi un breviario per una solitaria liturgia, è l’immagine che ci riporta alla fragilità e normalità del cammino: umile partecipazione a ciò che è ineluttabile e poetica lontananza del tempo vissuto.


[1] AAVV, Fragmented Book, Corso Superiore di Arti Visive, Fondazione Antonio Ratti, Nero, 2006.

[2] G. Andreotta Calò, Prima che sia notte, Archive Books, 2014.

[3] R. Solnit, Storia del camminare, Mondadori, 2002.

[4] H. Fulton, Keep moving, Charta, 2005.

[5] G. Andreotta Calò, Gloria, Humboldt Books, 2021.

[6] T. Ingold, Siamo Linee. Per un’ecologia delle relazioni sociali, Treccani, 2021.