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Fare un cantiere
Inerzia ed entropia nel monumento contemporaneo

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Gigantesche statue neoclassiche incombono sul paesaggio urbano di Londra nel 2099. Angeli arcaici, rovine tronche, divinità storiche e mitiche, assieme ad altri eroi, compongono l’immaginario anacronistico che pervade la serie TV The Peripheral, un recente adattamento dell’omonimo romanzo di fantascienza di William Gibson. La storia è ambientata in due diversi periodi di tempo: uno relativo a un mondo dalla tecnologia avanzata, collocato in un futuro prossimo e l’altro in un futuro più lontano e postapocalittico. I due periodi sono collegati dalla tecnologia VR, che consente agli individui di interagire attraverso il tempo, creando una complessa rete di relazioni, di potere e di alleanze. Man mano che la trama si svolge, apprendiamo come la funzione semplice e pratica delle statue sia quella di ripulire l’aria dall’inquinamento e dalle radiazioni; sono diventate strutture il cui compito si basa sul sostegno alla sopravvivenza di un piccolo avanzo dell’umanità rimasto in un mondo altrimenti inabitabile. La città di Londra – architettura e vita pubblica – appare irreale; ogni suo aspetto risponde a una logica di proiezione, la cui unica ragione d’esistenza è quella di creare l’illusione di un mondo ancora intatto e vivo. Il passato prossimo di questo futuro non deve essere ricordato, in quanto è un passato di distruzione e apocalisse indotto dall’uomo. L’architettura e la vita create tecnologicamente trasmettono un’immagine irreale e rilassante, un’immagine capace di tracciare una linea di continuità con il passato preapocalittico.

Analizzando il nostro presente, ci sembra di vivere una situazione opposta a quella narrata. In molte parti del mondo occidentale, le ideologie che connotano i monumenti e i luoghi pubblici, così come la loro estetica, appaiono in contrasto con la realtà sociale e politica del nostro tempo. Ma più ancora che il loro apparire un mezzo per orientare e controllare il presente attraverso una continua narrazione e legittimazione del passato, molti monumenti storici, oggi, ci colpiscono perché incarnano una bizzarra disconnessione con il presente. Secondo Jan Assmann, i monumenti sono un modo per immagazzinare esternamente «informazioni di importanza culturale»[1]. È vero. Ed è questo che ne segna la differenza ineludibile rispetto ad altri manufatti della cultura materiale, come quelli del design o dell’architettura, che hanno ragioni funzionali più evidenti e che potrebbero essere riadattati, al volgere dei tempi, per ragioni pratiche, economiche o finanziarie. Il monumento, in linea di principio, manca di uno scopo basato sull’utilità. Dovrebbe rivolgersi al regno del significato che anima la realtà – e si badi che nel farlo compie una violazione etica intrinseca – indicando «informazioni di importanza culturale», le quali costituiscono un campo altamente selettivo. È questa, quindi, la ragione per cui, oggi, dobbiamo indagare i monumenti come significanti di una complessa rete di relazioni di potere economico e politico al pari dei miti che rafforzano le narrazioni relative alle identità dominanti. Concentrandosi su questa frattura intrinseca all’idea di monumento, propongo un ripensamento radicale di come viene concepito nel ‘contemporaneo’ il monumento o lo spazio pubblico, attraverso pratiche artistiche che ne rivalutano l’estetica e l’etica. Quando mi riferisco al ‘contemporaneo’ intendo, da un lato, i monumenti ancora presenti nel nostro patrimonio storico e culturale pubblico e, dall’altro, quelli che ribaltano o sfidano la cultura dei monumenti soprattutto in Europa e in Occidente.

Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a una crescente attenzione rivolta alla ridefinizione dei monumenti del passato. Essi, onnipresenti nel mondo occidentale, celebrano o ricordano la schiavitù, il colonialismo, il fascismo, il comunismo o il genocidio delle popolazioni indigene. Le reazioni che generano e i metodi adottati per la loro ridiscussione variano ampiamente e fortemente in base al contesto locale. Approcci già sperimentati come la contestualizzazione, l’adattamento, l’alterazione, la reinterpretazione, la decodifica o la musealizzazione sono stati ridiscussi. Dalla fine del primo decennio del Duemila, arrivando alla piena maturità verso la fine degli anni Dieci, i dibattiti critici sulla storia del mondo occidentale sono diventati più popolari e, oggi, difficilmente possono considerati marginali: per l’Europa, al centro del discorso c’è il passato coloniale, mentre per il Nord America il nodo resta la realtà di duratura ingiustizia razziale legata alla supremazia bianca, alla storia della schiavitù e al genocidio degli indigeni[2]. In questa cornice, abbiamo assistito a una varietà di azioni pubbliche consumatesi in questi anni e, costituite da deturpazioni o vandalismi contro i monumenti che commemorano tali storie. Alcune di queste azioni sono state animate da artisti, ma principalmente hanno visto coinvolti attivisti. È interessante notare come questa nuova forma di impegno non si concentri su un solo aspetto specifico estratto dalla cornice di un passato problematico recente ma si rivolga, più o meno, all’insieme delle manifestazioni di potere che tra la fine del XVI secolo, il ‘boom monumentale’ del XIX e poi del XX secolo, si sono tradotte nella forma del monumento. La rilettura del passato recente o di quel patrimonio culturale che sviluppa una relazione diretta col concetto di identità non è una novità: nel contesto europeo, ogni generazione ha dovuto confrontarsi con il passato, specialmente per ciò che riguarda l’eredità dei regimi totalitari del XX secolo e della loro scia di atrocità di stampo fascista, nazionalsocialista o sovietico. Tuttavia, gli sforzi e le modalità di riflessione sono, finora, fortemente dipesi da influenze economiche o finanziarie che avevano un rapporto diretto con quegli specifici territori[3]. Il fatto che il fenomeno che oggi osserviamo abbia portata globale attesta l’urgente necessità di sfidare nel profondo i rapporti di potere passati, quelli predominanti ancora attuali e le modalità di storicizzazione, oltre alle questioni di visibilità ed emarginazione della memoria culturale collettiva e a quelle relative al controllo dello spazio pubblico.

Cosa rende oggi il monumento un ‘cantiere’ così attraente del nostro presente? Prendo qui in prestito il termine da Hal Foster, che lo ha applicato nel suo saggio An Archival Impulse (2004) per discutere la pratica degli artisti contemporanei legati all’utilizzo di materiali e metodi d’archivio nel loro lavoro[4]. Ricontestualizzando i materiali d’archivio e presentandoli in modi nuovi, gli artisti possono sfidare le concezioni tradizionali della Storia e creare visioni alternative del passato e del presente. Foster, però, mette in guardia contro un determinismo storico unidimensionale che può manifestarsi come frutto del semplice riassemblaggio delle sfaccettature storiche e delle relazioni di potere inerenti a qualsiasi pratica archivistica e a qualsiasi produzione di conoscenza, finendo per generare comunque dei canoni e delle gerarchie di accesso. I monumenti pubblici sono un archivio: un archivio da cui possiamo apprendere le relazioni di potere esistenti in passato e capire come queste strutture continuino a giocare un ruolo sotto forma di realtà politiche e sociali nel nostro presente, finendo per speculare su versioni più costruttive del futuro. Indipendentemente dalle intenzioni che animano un monumento – e che vanno da ragioni di governo legate alla celebrazione dell’identità, alla glorificazione o alla commemorazione di essa, alla propaganda o alla legittimazione – il suo luogo nello spazio pubblico porta con sé un enorme potenziale. Sebbene giuridicamente parlando, nella maggior parte dei casi, i monumenti siano di proprietà statale e la loro violazione preveda sanzioni, nel loro ruolo di ‘ambasciatori’ della memoria culturale e pubblica, in qualche modo, appartengono alla collettività. Data la loro visibilità e la capacità di stabilire un rapporto di continuità con il passato, essi creano un campo piuttosto interessante per le pratiche artistiche volte a sfidare le concezioni predominanti di Storia, ideologia e identità. Il ruolo ambivalente del monumento tra il governo della memoria, da un lato, e l’interpretazione pubblica e l’appropriazione, dall’altro, lo rende un esempio eccezionale di come questi due aspetti si intreccino e la coscienza pubblica venga al contempo plasmata dalle élite al potere e riformata dalla società civile. L’urgenza e il potenziale dell’argomento si riflettono oggi anche nell’evoluzione di un contesto temporale in cui sono presenti, simultaneamente, sia la rinascita sulla scena globale di movimenti di estrema destra e di stampo neofascista accanto alla permanenza di vecchie e nuove forme di colonialismo economico e di sfruttamento, sia l’intensificata decostruzione e decolonizzazione del canone della Storia occidentale. Ovviamente, le modalità attraverso cui l’arte affronta tutto questo sono da intendersi e circoscriversi all’interno di un perimetro molto limitato, seppur relativo allo spazio pubblico. Ma è comunque un ulteriore piccolo passo nella prospettiva di un cambiamento strutturale più ampio e che è già in corso. Quest’ultimo, nella sua pienezza, può trovare il suo compimento solo in seguito a una revisione delle dinamiche di governance delle istituzioni pubbliche, dei percorsi di istruzione e produzione della conoscenza, e di quelle adottate dai media, cercando di individuare percorsi più etici e più critici.

Prima di arrivare a discutere ciò su cui la Quadriennale di Roma mi ha chiesto di riflettere, ovvero identificare e ragionare criticamente su un fenomeno specifico nel panorama dell’arte contemporanea italiana, vorrei aggiungere due informazioni che contestualizzano la mia posizione nell’orizzonte del tema che stiamo discutendo. In primo luogo, la mia indagine si fonda sulla nozione che di archivio dà Michel Foucault ne L’archeologia del sapere, ossia come «la legge di ciò che può essere detto, il sistema che governa l’apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli»[5]. In effetti, chi scrive la Storia? Chi può determinare le conseguenze di una certa narrazione? E come entrano in gioco, qui, potere e identità? Le istituzioni pubbliche e nazionali, in particolare quelle che operano nel campo della produzione della conoscenza, hanno avuto e continuano ad avere un forte impatto nel plasmare la costruzione della memoria. Esse ne sono artefici e custodi. La Quadriennale lo è per ciò che riguarda un canone storico-artistico. Come si legge evidentemente sul sito dell’istituzione, «la Quadriennale di Roma è l’istituzione nazionale cui è affidato il compito di promuovere l’arte contemporanea italiana in Italia e all’estero»[6]. Oltre alle date di fondazione come mostra periodica, nel 1927, e come ente autonomo, nel 1937, non sono stata in grado di trovare alcun collegamento diretto con le sue radici nel regime fascista italiano o con il suo ruolo all’interno della macchina di propaganda culturale fascista mirata a creare una cultura distintamente italiana da celebrare sia in patria che all’estero. Nell’esplorare le riflessioni contemporanee relative al concetto di monumento attraverso posizioni artistiche ‘sviluppate in Italia’ che sollevino interrogativi e affrontino il proprio patrimonio culturale, la Quadriennale, in quanto istituzione con radici nel fascismo e nel sistema culturale, diventa essa stessa una lente interessante. Non intendo costruire un caso di critica istituzionale. Metto in evidenza questi aspetti per la responsabilità e per il compito che ho di proporre certi interrogativi dalla tribuna di un’istituzione nazionale, in un’epoca in cui le percezioni consolidate del patrimonio culturale, dell’identità nazionale, della migrazione, del colonialismo e della Storia, nonché la loro riproduzione attraverso i meccanismi di finanziamento, rappresentanza e distribuzione sono messi in discussione e ribaltati. Pertanto, un’indagine sullo status quo dell’arte è bene che tenga presente le dinamiche di potere, identità e rappresentazione – le complessità che Foucault ha acutamente riassunto nella sua definizione di archivio. In primo luogo, chi è che stiamo osservando e ascoltando? Chi è che pone le domande? In base a quali parametri viene portata avanti una proposta? Per non parlare della circostanza. La mia posizione è quella di una curatrice donna, bianca, di trentadue anni, nata in Germania. Nel suo articolo Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective (1988), scritto in contrasto all’apparente oggettività maschile dell’epoca, Donna Haraway propone una metodologia di ‘localizzazione limitata e conoscenza situata’ per «consentirci di diventare responsabili di ciò che impariamo a vedere»[7]. Essere tedeschi qui gioca un ruolo essenziale, in quanto implica una specifica politica della memoria e un certo approccio predominante nel trattare il patrimonio culturale che si ritrovano in modo particolarmente evidente in Germania. Dopo la seconda guerra mondiale, a fronte della persecuzione sistematica e dello sterminio di massa di milioni di ebrei e di centinaia di migliaia di altre vittime, classificate dai nazisti come ‘razzialmente inferiori’, nonché del retaggio dell’architettura fascista, la Germania (di concerto coi suoi alleati) mette in evidenza un approccio iconoclasta volto a creare una rottura con l’eredità del suo recente passato. Di conseguenza, molti edifici furono demoliti nel tentativo di cancellare ogni traccia di storia recente. Negli anni Ottanta, questo approccio è stato sostituito dalla ‘conservazione critica’ (Gavriel D. Rosenfeld, 2000), che ha favorito il mantenimento rispetto alla demolizione, a condizione che fossero fornite informazioni critiche[8]. Nonostante le differenze locali che si sono intensificate durante la divisione della Germania (1949-1990), possiamo parlare di un percorso sinergico e di una narrazione collettiva, che ha preso il nome di Vergangenheitsbewältigung – la cui traduzione suona come «la lotta per superare il passato», e descrive un approccio globale attraverso la cultura, la politica e la società nella Germania del dopoguerra, che è ancora evidente oggi. Se, però, è difficile trovare un sito pubblico legato al passato fascista della Germania che non sia ricontestualizzato, le cose sono assai diverse se ci riferiamo a monumenti legati al passato coloniale tedesco, la cui eredità è stata a lungo ignorata. Solo negli ultimi anni possiamo assistere a un percorso istituzionale volto a rileggere il ruolo della Germania come potenza coloniale. Nel suo saggio Difficult How? Italy’s Inertia Memoriae of Fascism, l’antropologa culturale Mia Fuller attribuisce all’Italia un’inerzia della memoria, quale «tratto distintivo di come [essa] ha gestito il suo passato fascista»[9]. Fuller riconosce un intreccio molto complesso di sentimenti e storie diverse le cui radici affondano nella frammentazione delle regioni italiane e nella conseguente divisione interna, che diventa più profonda con la guerra civile (1943-1945), all’indomani della sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale e che, fino a oggi, squarcia la società italiana. Di conseguenza, all’Italia manca ancora – e qui potremmo essere in grado di tracciare una linea di confronto con la Germania – una meta-narrativa sul suo passato fascista. Attingendo a dibattiti recenti e attuali, ricerche empiriche e studi di casi, Fuller evita di cadere nella trappola delle spiegazioni semplicistiche dell’attuale situazione italiana. Invece, introducendo il termine inertia memoriae, sostiene una duplice ipotesi[10]. Da un lato, spiega i resti onnipresenti dell’infrastruttura fascista in Italia a causa di «un modello (di inazione e/o azione reattiva)», che diventa tangibile nel significato di ‘inerzia’ «riferito sia all’assenza di cambiamento che ad un restare immobili». Dall’altro, attesta come questa stasi interna, secondo la sua ipotesi, sia stata ribaltata per lo più da agenti esterni, come ad esempio letture di osservatori stranieri accumulatesi nel recente passato. Il che dà corpo a un secondo, meno noto, significato di inerzia: «una proprietà della materia per la quale essa continua nel suo attuale stato di quiete o moto uniforme in linea retta, a meno che tale stato non sia cambiato da una forza esterna». In questa prospettiva, è verso l’insieme delle relazioni che l’inerzia stabilisce tra monumento, memoria e Storia, che voglio rivolgere lo sguardo. I monumenti sono stati storicamente creati per evocare un senso di permanenza e autorità, spesso per affermare un potere unico e centralizzato e mantenere un’eredità che dura nel tempo. L’inerzia, secondo il modo di intendere il rapporto tra l’Italia e la sua memoria culturale proposto da Fuller, potrebbe essere l’attitudine italiana rispetto al suo passato fascista e coloniale. Tuttavia, quando si tratta di colonialismo e imperialismo, l’inerzia descrive, necessariamente, una condizione europea e generalmente occidentale.

In che modo queste considerazioni sul patrimonio, la memoria, la Storia e l’identità hanno influenzato le pratiche artistiche in Italia e all’estero? In uno dei testi per la rivista «Quaderni d’arte italiana», Francesca Guerisoli e Marco Trulli presentano una profonda indagine sullo status quo italiano delle pratiche artistiche intorno ai monumenti e sul passato conflittuale che rappresentano[11]. Parte della mia analisi è, quindi, parallela alla loro ricerca. Propongo, quindi, di iniziare l’indagine non solo dando conto delle pratiche artistiche che interagiscono con il monumento tradizionale in quanto luogo di ricordo e memoria conflittuale, ma anche pensando a monumenti contemporanei che sfidano o minano tale scopo. Questi siti, siano essi rovine del passato o ‘monumenti alle condizioni del presente’ diventano mappe da leggere attraverso una lente economica e sociopolitica. Costruire nuovi monumenti – sfigurando vecchie storie o applicando la cultura del monumento ad altri campi – diventa una metodologia per reinterpretare e/o comprendere il nostro passato e il nostro presente. Ryts Monet e Alterazioni Video, entrambi in mostra a Palazzo Braschi, configurano due casi rappresentativi di questo tipo di approccio.

La pratica di Ryts Monet può essere colta al meglio da una citazione di Hannah Arendt: «La narrazione rivela il significato senza commettere l’errore di definirlo»[12]. Nella sua ricerca multimediale, l’artista fa riferimento alle vestigia culturali della rappresentazione sociopolitica, che vanno dai monumenti alle cartoline o agli oggetti quotidiani come le banconote, collegando le ideologie storiche ai mezzi di governo in contesto internazionale, la cui globalità è modellata sul concetto europeo di modernità. Taking the Shadow of an Obelisk and Let It Dissolvent into the Sea (2018) si compone di una cianotipia su carta e di un video che documenta in tempo reale il processo che ha portato alla sua realizzazione. Il dimensionamento dei due elementi – la cianotipia monumentale e la dimensione compatta del monumento/matrice sullo schermo – parlano di un capovolgimento in sé. Il titolo preannuncia i due atti che Monet intraprende per trasformare l’estetica e l’etica dell’obelisco di Villa Opicina a Trieste utilizzando come tecnica la cianotipia. Con l’atto di ‘prendere l’ombra di un obelisco’, Monet scatta più di una foto: ‘misura’ le implicazioni religiose, storiche e nazionali dell’odierna presenza dell’obelisco. L’atto di ‘lasciarlo dissolvere nel mare’ espone l’impronta dell’obelisco e, allo stesso tempo, mette letteralmente in discussione le basi epistemologiche, culturali e semiotiche su cui poggia. Nelle parole di Dipesh Chakrabarty, Monet tenta di creare una forma di storia che, invece di legittimare il presente, «guarda alla propria morte»[13]. L’obelisco ha una storia conflittuale. Nato nell’antico Egitto, dove era concepito come un raggio di sole pietrificato, simbolo di Ra, il dio del sole, fu successivamente acquisito come forma monumentale dall’Occidente: per tutto il XIX e XX secolo, obelischi e monumenti simili a un obelisco spuntarono in molte città occidentali così come nelle città del mondo colonizzato, diventando un’icona dell’imperialismo europeo e dell’Illuminismo. Questa particolare narrazione dell’Europa come culla della ragione e luogo di nascita della modernità appartiene – con i concetti di cittadinanza e Stato-nazione – alle forze sostanziali che sostengono una duplicità duratura, introdotta e prodotta da quel momento nel contesto del dominio imperiale e coloniale. Monet si occupa dei numerosi indici identitari e temporali relativi all’obelisco per creare un gesto potente e, tuttavia, sottile e poetico nel modo che ha di darne una traduzione. La tecnica della cianotipia prevede la sensibilizzazione di una superficie con una particolare soluzione, seguita dall’esposizione alla luce ultravioletta, e si completa con il lavaggio della carta in acqua, che sviluppa e congela l’immagine. Attraverso un processo alchemico, Monet produce una replica del monumento di pietra che reca in sé la connotazione religiosa del dio egiziano attraverso raggi di sole che si imprimono su una superficie e richiamandosi, così, all’origine dell’obelisco. Anche Mussolini si era appropriato del simbolo del sole: il suo desiderio di un nuovo impero italiano, all’altezza di quelli di Gran Bretagna e Francia, avrebbe dovuto garantire al popolo italiano ‘un posto al sole’. L’ombra sfocata, a causa della rotazione del pianeta, evidenzia la temporalità del processo creativo. L’atto finale di dissolvere il cianotipo in acqua, che è una necessità tecnica per sviluppare l’immagine, può essere letto come la dissolvenza di un’identità europea in una meta-narrativa legata al mare, collegando le origini storiche del continente con il presente dei flussi migratori che attraversano il mar Mediterraneo.

Dello stesso artista è anche un’opera che espone tre francobolli etiopi come documentazione del lungo processo di rimpatrio dell’obelisco di Axum dall’Italia all’Etiopia. Preso dagli italiani come bottino di guerra nel 1937, terminata l’occupazione italiana dell’Etiopia, la stele fu portata a Roma ed eretta davanti a quello che fu il Ministero per l’Africa italiana e, oggi, sede della FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations). Dalla decisione del suo rimpatrio all’effettivo rientro in Etiopia passarono cinquantotto anni. Un quarto francobollo, raffigurante Bob Marley, è affiancato ai primi tre. Il mito racconta che Marley abbia supplicato il ritorno dell’obelisco durante un concerto allo stadio San Siro di Milano, situato in piazza Axum, durante il suo Uprising Tour nel 1980. La sua presenza qui richiama il rastafarianesimo, una religione e cultura fondata in Giamaica negli anni Trenta. I rastafariani lodarono Haile Selassie I, l’ultimo imperatore d’Etiopia, come la reincarnazione di Cristo sulla Terra, mentre la propaganda fascista, sotto Mussolini, lo dipinse come un tiranno, strumentalizzandone l’immagine per giustificare l’invasione e la successiva ‘liberazione’ degli etiopi. Con questa serie di francobolli Monet apre un discorso sulla prospettiva multipla che investe i simboli culturali e il loro ruolo all’interno dell’interconnessione tra Storia, identità e creazione di miti.

Pratiche d’inclinazione archeologica come queste si sono sviluppate attraverso una lunga tradizione di risignificazione dell’estetica dei monumenti tradizionali e di definizione di un’etica da cui partire per riflettere su passati problematici. Negli anni Ottanta, insieme a una rinnovata discussione pubblica sul nazismo nella Germania ovest, sorse un movimento artistico definito ‘contromonumentale’ (James Edward Young, 1992). In contrasto con la paura dell’amnesia storica, l’«idea era di garantire che la ferita non potesse rimarginarsi e che il dibattito continuasse»[14]. Uno degli esempi più eclatanti e diretti di questo movimento è il Memorial Against Fascism di Jochen Gerz e Esther Shalev-Gerz. Nel 1986 nel quartiere Harburg della città di Amburgo, venne eretta una stele alta dodici metri e il pubblico fu invitato a scrivere su di essa, in modo da partecipare alla definizione del ricordo, abbassando, gradualmente, la stele nel terreno. Non appena una parte accessibile risultava ricoperta di iscrizioni, essa veniva immediatamente affondata nel terreno. Tutto ciò che rimane visibile oggi è la parte superiore del monumento, ora a livello del suolo, e un pannello di testo che descrive il processo in sette lingue, con la scritta: «Alla fine, siamo solo noi stessi che possiamo ribellarci all’ingiustizia». Un altro esempio potente e, in questo caso, decentralizzato di contromonumento è il progetto in corso Stolpersteine (pietre d’inciampo) di Gunter Demnig, iniziato nel 1992. Ormai, le piccole lastre di ottone, ciascuna incisa con la scritta «Qui visse», seguita dal nome, data di nascita e destino della vittima (internamento, suicidio, esilio o, nella stragrande maggioranza dei casi, deportazione e omicidio) sono sparse in tutta Europa. In molti luoghi, le pietre sono diventate parte della vita quotidiana e degli ambienti urbani. In quanto antimonumenti, queste opere sperimentano l’assenza piuttosto che la presenza e, quindi, esplorano il modo in cui la memoria viene implementata in forma alternativa negli spazi pubblici e nella cultura pubblica. In definitiva, richiedono la partecipazione del pubblico e un’autoriflessione continua sull’argomento piuttosto che un’elaborazione memoriale calata dall’alto e infusa in monumenti o statue. Esse lavorano contro il linguaggio formale dei monumenti classici, stabilendo una nuova estetica.

Un intervento di Arnold Holzknecht e Michele Bernardi realizzato a Bolzano nel 2017 segue il concetto di palinsesto: non cancella il passato, piuttosto lo sovrappone. Una scritta di luci a LED che cita Hannah Arendt, «Nessuno ha il diritto di obbedire», attraversa un bassorilievo e l’iscrizione di un edificio di epoca fascista, oggi destinato a uffici finanziari della città. Il fregio raffigura Mussolini a cavallo e reca lo slogan «Credere, Obbedire, Combattere». Un così semplice intervento si contrappone al gesto di grandiosità del bassorilievo, mentre la citazione, nell’intenzione degli artisti, è una «risposta diretta all’invito all’obbedienza cieca» contenuto nello slogan fascista[15]. Simile, in questo approccio volto a esaltare la monumentalità di un’iscrizione o a mettere un monumento contro se stesso, è Monument for Strangers and Refugees (2017) di Olu Oguibe, installato durante documenta 14 a Kassel. L’obelisco reca il versetto biblico «Ero uno straniero e mi hai accolto», nelle quattro lingue predominanti della Germania: turco, arabo, inglese e tedesco. La sua installazione nel 2017 è avvenuta in un periodo difficile, dopo quella che è stata definita in modo dispregiativo la ‘crisi dei rifugiati’del 2014-2015, un momento cruciale nella storia europea. La forza di questo lavoro sta nel riunire varie prospettive sulle forme di ospitalità consensuali, non consensuali o forzate e su come l’obelisco sia in grado di cambiare significato a seconda di chi interagisce con esso. La sua natura performativa si è manifestata chiaramente nel suo utilizzo come punto di incontro pubblico e pellegrinaggio per migranti e attivisti, ma anche nella polemica pubblica e nell’odio proiettato da movimenti di estrema destra come il partito Alternative für Deutschland (AfD), i cui membri hanno derubricato l’obelisco a esempio di «arte distorta e ideologicamente polarizzante» (entstellte Kunst), evocando, in questo modo, i fantasmi del programma nazista di descrivere l’arte moderna come “degenerata” (entartete Kunst)[16]. Alla fine, senza preavviso e all’insaputa dell’artista, l’obelisco fu smantellato e, mesi dopo, ricostruito lungo la ‘passeggiata dell’arte’ di Kassel, assieme a opere delle passate edizioni di documenta, e quindi, almeno in una certa misura, collocato nello spazio protetto dell’arte, che, in effetti, consente una maggiore libertà di espressione, ma spesso porta con sé la potenziale irrilevanza all’interno del discorso sociopolitico.

Di gran lunga più provocatorio ma allo stesso modo polarizzante è il memoriale temporaneo commissionato ad Hans Haacke, And You Were Victorious after All (1988), a Graz. Tirandosi dietro polemiche, atti vandalici e anche bombe incendiarie da parte dei neonazisti, Haacke ha ricreato una colonna della vittoria nazista che era stata eretta al posto di un monumento pubblico nel 1938, quando Hitler onorava Graz come una delle prime roccaforti naziste. Sebbene fedele alla forma e al sito originale, il memoriale di Haacke includeva un testo aggiuntivo per commemorare coloro che furono uccisi in quel territorio dai nazisti. In tal modo intendeva capovolgere l’intenzione originaria del memoriale nazista, puntando il dito sulla ferita ancora aperta di un passato non lontano di complicità e collaborazionismo fascista. Mentre il monumento di Oguibe si riappropria dell’estetica e della semiotica dell’obelisco, il memoriale di Haacke si identifica eccessivamente con esse ma, entrambe, alludono al potenziale che tali interventi artistici possono avere nel generare partecipazione e dibattito pubblico. Queste opere sottolineano, inoltre, che tanto le connotazioni passate quanto le implicazioni future dei monumenti possono essere riscritte ─ e non finiremo di sottolinearlo in questa sede ─ dal ruolo del pubblico in un orizzonte processuale. Esempi come quelli di Haacke negli anni Ottanta e Oguibe sei anni fa, indicano anche l’enorme quantità di lavoro che deve ancora essere fatto. Essi devono, quindi – nel canone della storia dell’arte e attraverso il lavoro di artisti, storici e non solo – essere intesi come monumenti autoriflessivi rispetto alla logica con cui storie problematiche quali il fascismo, il colonialismo e la schiavitù, ma anche il patriarcato, si sono materializzati negli spazi pubblici e, quindi, nella nostra coscienza pubblica, sociale e culturale.

Sebbene non sia stata in grado di identificare commissioni pubbliche di questo tipo in Italia, ci sono state e sono in corso interazioni e trasformazioni di monumenti pubblici, che affrontano memorie problematiche. A Milano, la statua del giornalista di destra Indro Montanelli, eretta nel 2006, è un esempio paradigmatico di come vi siano, di continuo, tentativi attivistici/artistici di risignificare un monumento pubblico e, quindi, una memoria pubblica che si riferisca al rapporto dell’Italia con il suo passato coloniale, e di quanto sia persistente la tattica perversa di denunciare tali tentativi come diretti contro un patrimonio storico degno di essere preservato e quindi – consapevolmente o ingenuamente – rimanere ciechi di fronte alla cancellazione altamente selettiva e sistemica di storie finora marginali. È evidente, inoltre, l’esitazione o l’inanità dei governi nell’occuparsi della storia del colonialismo europeo, del razzismo e della supremazia bianca, rivendicati da un pubblico sempre crescente, giacché tale processo potrebbe, alla lunga, mettere in discussione la loro stessa legittimazione. Certo, questo vale non solo per l’Italia, ma investe la questione dell’egemonia occidentale nella sua totalità e nella sua perdurante attualità dovuta proprio a un ‘oblio collettivo’ che cala come un ombra sui nostri luoghi e ricordi pubblici. Secondo Cindy Minarova-Banjac, «l’oblio collettivo si riferisce al modo in cui gli stati e i cittadini ricordano, difettano nel ricordare o dimenticano in modo selettivo al fine di mettere a tacere ed escludere visioni e prospettive alternative che contrastano con la narrazione ufficiale. L’atto di “dimenticare” comporta la decostruzione e la ricostruzione di significati, valori e istituzioni, in cui il gruppo dominante produce uno stato di realtà quasi naturale che delegittima storie e memorie alternative. Oltre a essere uno strumento efficace per mantenere il potere, si sostiene che l’oblio svolga un ruolo importante nella politica estera e interna, poiché gli stati usano le narrazioni del passato per legittimare le loro identità nazionali»[17]. Ricordato pubblicamente soprattutto come giornalista, Montanelli era anche politicamente un conservatore e prestò servizio come soldato nella colonizzazione italiana dell’Etiopia, dove acquistò una giovane ragazza eritrea di dodici anni e la fece sua moglie. Per anni, attivisti e artisti hanno preso di mira la statua con atti costantemente minimizzati o condannati come vandalismo nei confronti di un patrimonio storico degno di essere preservato. Nel 2020, l’artista e attivista Cristina Donati Meyer ha collocato in braccio alla statua una marionetta che rappresentava una giovane ragazza eritrea: Il vecchio e la bambina ha trasformato la narrazione del monumento per un breve momento, fino a quando la polizia non ha rimosso la marionetta e fermato l’artista. Gruppi di attivisti come NON UNA DI MENO o i Sentinelli di Milano hanno dipinto di rosa la statua e chiesto pubblicamente di rimuoverla da Porta Venezia.

Sono numerosi gli artisti, per i quali l’eredità come trauma e il conteso campo della politica memoriale rispetto al passato fascista, imperiale e coloniale dell’Italia, simboleggiato nei monumenti pubblici, diventano un punto di partenza per traduzioni documentarie, performative o sonore. Opere come queste vanno spesso di pari passo con una de- o immaterializzazione della monumentalità di un sito o di un evento storico. Il film Freedom of Movement di Nina Fischer e Maroan el Sani, girato al Palazzo della Civiltà nel quartiere EUR di Roma, mette assieme rievocazioni e filmati d’archivio, sollevando interrogativi su come questa eredità dovrebbe essere trattata, attirando l’attenzione sulla diversità della società e sulla storia condivisa. La videoinstallazione di Theo Eshetu The Return of the Axum Obelisk (2009) racconta il rimpatrio del trofeo di guerra da Roma all’Etiopia, esplorando le questioni culturali, religiose, politiche ed estetiche che circondano il ritorno dell’obelisco. Eshetu utilizza uno stile visivo che ricorda i tradizionali dipinti di icone etiopi per trasmettere una narrativa sfaccettata, che comprende gli ostacoli del rimpatrio e della reinstallazione dell’obelisco, i festeggiamenti che ne derivarono e i momenti di riconciliazione tra italiani ed etiopi. Un esempio d’impronta più educativa sono i saggi cinematografici di Alessandra Ferrini. Nel suo lavoro, l’artista esplora la produzione di narrazioni storiche con un punto focale sulla «politica accuratamente orchestrata di visibilità e invisibilità che modella la memoria del trauma coloniale in Italia»[18]. La pratica di Laura Cazzaniga, d’altra parte, potrebbe essere descritta come atto di disobbedienza civile e antiautoritaria, nel tentativo di comprendere, e di conseguenza mediare, come le strutture di potere e le interpretazioni della Storia condizionino le nostre vite. La serie Studies on Counter-Monument (2017) raccoglie interazioni effimere con monumenti fascisti a Roma e a Madrid di cui restano tracce attraverso fotografie in bianco e nero. Qui l’artista usa la resilienza e la resistenza della performance di danza di strada contro la forma rigida e la concezione storica dei monumenti fascisti. Come Cazzaniga, Rossella Biscotti è interessata a un resoconto non ufficiale della Storia, che vive ai margini del discorso o della pratica istituzionale. Spesso, il suo punto di partenza è l’eredità inerte e silenziosa dell’architettura e dei monumenti storici che intreccia in un nuovo corso di controstoria. In Le teste in oggetto (2009), cinque fusioni di teste in bronzo di re Vittorio Emanuele III e Mussolini, prodotte nel 1942 per l’Esposizione Universale di Roma e mai esposte a causa della cancellazione della mostra, demistificano l’immagine del potere. Ne Il Processo / The Trial (2010-2013) il corso e il luogo storico del noto Processo 7 aprile contro membri del gruppo di sinistra extraparlamentare Autonomia operaia, diventano il ‘cantiere’ di Biscotti. Il processo si svolse nell’aula bunker costruita, con una riconversione architettonica di fine anni Settanta, all’interno di un edificio del 1934 facente parte del Foro Italico, uno dei maggiori progetti urbanistici di Mussolini a Roma. Dopo diversi anni di inattività l’edificio è poi tornato alla sua funzione originaria. Prima dei conseguenti lavori di demolizione parziale, Biscotti è stata in grado di recuperare diversi elementi originali dal sito e di realizzare calchi di dettagli architettonici dell’aula del tribunale, che hanno prodotto sculture minimali in cemento. Una componente essenziale dell’installazione ─ che la trasforma in un elemento di rievocazione storica ─ è un montaggio di sei ore tratto dalle registrazioni originali del processo e la traduzione simultanea performativa in diverse lingue. Come nell’esempio di Cazzaniga, anche qui si ravvisa una proposta di fluidità e movimento. Nel caso di Biscotti ciò avviene attraverso il linguaggio e la traduzione, contro la rigidità dell’oggettività storica.

Un’altra posizione artistica che contrappone la Storia al movimento, animando questa dialettica con la rievocazione umoristica e giustapponendo la monumentalità all’immaterialità, è quella di Alexandra Pirici. Le sue performance sottolineano il ruolo del pubblico, i beni comuni e le possibilità derivanti da una partecipazione collettiva nell’affrontare e comprendere le strutture di potere. In If You Don’t Want Us, We Want You (2011), messo in scena nella sua città natale, Bucarest, performer coordinati dall’artista hanno rappresentato monumenti effimeri basati sugli originali postcomunisti presenti nella città.

Esplorazioni nel campo sonoro che intendono rendere immateriale il monumento, inteso come manifestazione della cultura della memoria pubblica, sottolineano le potenzialità e l’importanza di un ente sociale e pubblico per riscrivere la Storia. Il progetto in corso Black Med, del duo di artisti Invernomuto, segue traiettorie sonore attraverso il mar Mediterraneo. Costruito come un archivio aperto, esso forma una cartografia di movimenti, eventi, identità e narrazioni, che si riscrive costantemente ed è pensato per essere rappresentato e interpretato da più attori. Tali lavori collocano la discussione intorno all’immaterialità del patrimonio culturale, al di là del materiale intrinsecamente connesso alla costruzione della nazione e dell’identità. Cercano il suono come luogo di affetto, memoria, pulsazione, solidarietà e spiritualità attraverso lo spazio e il tempo.

Gli artisti di cui si è parlato finora condividono una pratica che trae origine da una diffusa condizione contemporanea (occidentale) di inerzia di fronte alla propria eredità e che si propone di sfidare i privilegi di lunga data di cui beneficia una minoranza di persone rispetto alla maggioranza degli ‘altri’. Essi intendono attivare una trasformazione in quell’uniformità inerte prodotta dalla standardizzazione sistemica di una politica della memoria, perpetuata nei monumenti del passato, che celebra l’imperialismo e il colonialismo occidentali. Al centro delle loro motivazioni c’è il desiderio di confrontarsi con le complessità della Storia e della memoria e quello di sfidare le narrazioni e le rappresentazioni dominanti che ci sono state tramandate.

Proviamo ora a collocare il monumento in una dimensione entropica.

Derivata dalla fisica, come l’inerzia, l’entropia descrive il decadimento dell’energia in un sistema misurando il grado di caos al suo interno. Secondo la seconda legge della termodinamica, un sistema isolato perde sempre energia, il che significa che la sua energia viene convertita in altra forma ─ poiché non può mai essere persa ─ e l’entropia all’interno del sistema si massimizza fino a raggiungere un punto di equilibrio. Mia Fuller ha collegato l’inerzia alla memoria pubblica nella società italiana. Suggerisco di utilizzare l’inerzia, unita all’entropia, per indagare le dinamiche di reciprocità fra i monumenti, il pubblico e la politica della memoria, nonché le pratiche artistiche che richiamano il passato. L’artista e critico di land art Robert Smithson si è appropriato di questo concetto negli anni Sessanta e ne ha fatto un punto focale del suo lavoro. Per Smithson, l’entropia è diventata un modo per alimentare la sua pratica artistica dando una struttura alla ‘vita’ dei suoi lavori scavati nell’ambiente. Essenzialmente, per lui, l’entropia è tradotta in «tempo come decadimento o evoluzione biologica»[19], e ciò avviene in riferimento a una ridefinizione o a un nuovo significato dato ai siti postindustriali. In relazione allo slittamento di significati qui elaborato e al proposito di una trasformazione della politica della memoria e della coscienza pubblica di una ‘Storia’, penso a queste pratiche artistiche, come capaci di una riformulazione dell’entropia come forza motrice. Il materiale inerte in forma di documenti, raccolto da una Storia centralizzata e intenta a legittimare il suo corso continuo nel presente, diventa qui «una sorta di diversità e discontinuità completamente pervasa dal processo entropico»[20]. Tale scollamento diventa evidente nella rottura tra la crescente ricerca di uguaglianza sociale e politica e l’immagine storica presumibilmente fondata, ma ora fatiscente, trasmessa nell’estetica e nell’etica dei monumenti storici negli spazi pubblici. Il processo entropico, inteso come disgregazione o decadimento all’interno di un sistema – che nell’opera di Smithson era di natura biologica – diventa, in questo senso, un nuovo modo per gli artisti di trattare i monumenti storici, di immaginare, nelle parole di Chakrabarty, «una storia che tenterà l’impossibile: guardare alla propria morte rintracciando ciò che resiste e sfugge al miglior sforzo umano di traduzione attraverso sistemi culturali e altri sistemi semiotici, in modo che il mondo possa ancora una volta essere immaginato come radicalmente eterogeneo»[21].

A mio parere, una pratica artistica ricca di entropia è quella di Lara Favaretto. Posizionato tra «distruzione e ricostruzione, crollo e recupero», come lo descrive lei stessa, il suo lavoro sfida la metodologia e la materialità dei monumenti collocati nei nostri spazi pubblici e l’idea stessa di memoria. I Momentary Monuments, messi in scena dal 2009, hanno assunto, finora, varie forme: massi di granito scavati, un’installazione paludosa, migliaia di sacchi di sabbia ammucchiati, una biblioteca o una discarica di rottami. Questi monumenti – momentanei, transitori, indesiderati, effimeri o metaforici – rendono omaggio a scambi immateriali, persone scomparse, oggetti trascurati o finiti nell’ombra della Storia. Sono temporanei e verranno distrutti dopo l’esposizione; si decompongono organicamente nella loro materialità o attraverso l’interazione delle persone, come nel caso di una gigantesca biblioteca di libri usati, che i visitatori erano invitati a portare con sé, abbattendo lentamente il monumento. Contrari alla forma e alla materia del monumento nella sua concezione di permanenza, i monumenti di Favaretto sono a termine e comprendono i propri limiti di legittimazione. Resistono al dogma della visibilità e, quindi, fanno slittare i meccanismi che hanno nutrito conoscenze, canoni e archivi evidenziando la presenza di alcuni di essi e rendendone invisibili altri. Raggiungendo rapidamente il massimo dell’entropia, il decadimento di qualsiasi abitudine, materiale e funzionale relativa alla società, l’artista realizza, nei modi più semplici e crudi, un processo nuovo, o invertito nel trarre vitalità e senso dal progetto stesso. Il problema legato a chi costruisce i nostri monumenti perde di senso nel momento in cui un monumento vuoto è utilizzato per raccogliere donazioni da devolvere poi a enti di beneficenza. Il consumo diventa redistribuzione, l’accumulazione diventa dispersione. Il confine tra queste categorie si dissolve. L’artista mette a nudo i materiali, inscrivendoli nelle strutture spaziali, socio-culturali ed economiche di cui sono artefici, ponendo così le basi per renderci consapevoli della politica di base che la fa interagire con essi. Solo allora, il loro significato simbolico si rivela.

Altrettanto impegnato nell’orizzonte di un futuro che sia più costruttivo è il lavoro di Alterazioni Video. Qui il processo entropico di decadimento è diventato un catalizzatore artistico per esaminare il nostro tempo attraverso le rovine del presente e le condizioni in cui si producono. Queste rovine – edifici vuoti e in decomposizione, bunker o cantieri abbandonati, che abitano le nostre aree urbane e rurali come scheletri – non sono state costruite per commemorare una storia o un’identità, piuttosto, sono diventate idiosincrasie della storia attuale e dell’identità del presente, in Italia così come su scala globale. Sono da considerarsi monumenti nel senso che rappresentano una memoria collettiva ancora da indagare. Sono non finiti. Incompiuto è il progetto di ricerca in corso, atlante archivistico e pratica artistica di Alterazioni Video, che mira a creare una storia identificando ‘l’incompiuto’ come un particolare ‘stile’ e fenomeno del nostro presente. Nelle parole del gruppo: «Vediamo l’intero ‘sistema nazionale delle opere incompiute’ come testimone materiale dell’attuale contesto socio-culturale che permea la quotidianità, e ne proponiamo una definizione come un nuovo stile che restituirà i suoi contenuti da molteplici punti di vista»[22]. Guardando i documenti che Alterazioni Video ha raccolto nel corso degli anni, mi viene in mente la frase di Vladimir Nabokov da Ada o ardore, «Il futuro non è che l’obsoleto al contrario»[23]. Indicando il possibile annichilimento del futuro quale costante riflesso o inversione – una versione riciclata – del passato, la domanda che viene da porsi è: possiamo creare di nuovo il mondo come era in origine, radicalmente eterogeneo? Come work in progress, iniziato in Sicilia nel 2007, il progetto si è ormai diffuso attraverso vari media, progetti e collaborazioni, che hanno dato corpo a fotografie, stampe, installazioni, mappe, video e un libro intitolato La nascita di uno stile / The Birth Of A Stile. I collage in mostra a Palazzo Braschi mostrano corpi di fabbrica giustapposti nello spazio in modo da sembrare mappe o astronavi che fluttuano nell’aria. Sono composizioni che ragionano all’interno della tradizione cartografica – attraverso l’idea di mappa, come strumento privilegiato di proiezione per la nostra mente. Le facciate in cemento moltiplicate in Instituto medico (2018) o in Ispica (2018) richiamano i fantasmi brutalisti di architetti come Nervi o Andrault e Parat, paradigmatici per un’architettura funzionalista italiana del dopoguerra. Anch’essi evocano luoghi come Pizzo Sella in Sicilia o la costa di Castel Volturno – siti di scheletri di cemento in decomposizione, alcuni dei quali confiscati dalle autorità, ma rimasti perlopiù trascurati – simboli di affermazioni di potere da parte della mafia e testimonianza materiale di riciclaggio, corruzione e speculazione immobiliare del più recente passato italiano. Mi viene in mente anche la monumentale opera di land art, Grande cretto (1984-2015), di Alberto Burri, che l’artista ha concepito come memoriale per la città di Gibellina, distrutta dal terremoto del 1968. Nella loro astrazione, questi oggetti artistici, fluttuanti contro cieli azzurri e limpidi, potrebbero essere mappe di territori inesplorati; potrebbero essere navi spaziali, formazioni astratte che ricordano il monolite di Kubrick in 2001: Odissea nello spazio (1968). Se prendiamo in considerazione la piena complessità del mondo globalizzato anche pensare a queste rovine come archetipi junghiani, specialmente in riferimento ad alcuni simboli evidenti e simili in culture diverse ─ in quanto sviluppati da archetipi condivisi nell’orizzonte dell’inconscio collettivo appartenente all’umanità ─, non è qualcosa di troppo astratto. Invece di lasciare questi luoghi nell’ombra, un approccio artistico come quello di Alterazioni Video propone di guardarli come ‘patrimonio’ da integrare nel futuro. Tale sforzo non deve essere visto come la nostalgia per un passato ormai perduto, ma piuttosto nei termini di una discussione aperta sulla funzionalità e la sostenibilità degli edifici, nonché sulle mutevoli esigenze della società e sull’economia on demand in un mondo globalizzato. Mappando più di 750 cantieri in tutta Italia, di cui 350 in Sicilia, Incompiuto è più di uno stile, direi: è una metodologia attraverso la quale interpretare un passato conflittuale italiano, più recente rispetto a quelli affrontati fin ora, fatto di oppressione economica, sfruttamento e stagnazione. Approcci simili alla creazione di nuovi archivi del presente, che si manifestano in una forma di ‘non patrimonio’, esistono nel lavoro di Margherita Moscardini, nel collettivo Fare Ala o in Stalker/Osservatorio Nomade. In 1XUnknown (2012 – in corso), Moscardini cataloga i bunker storici come strutture permanenti del passato troppo costose da demolire e, quindi, oggi, perlopiù in rovina. L’Atlantic Wall lungo la costa dell’Europa settentrionale era uno dei progetti infrastrutturali militari di Hitler e trasformò parte dei profili costieri naturali di quella che i nazisti chiamavano la ‘Fortezza Europa’, che conta ancora circa 1500 bunker sul territorio. Negli anni recenti lo stesso termine viene usato per riferirsi al rafforzamento protezionistico e militare dei confini europei e l’esternalizzazione dei confini attraverso i cosiddetti hotspot e i Paesi cuscinetto per fermare l’immigrazione clandestina. Il progetto di Fare Ala, Pizzo Sella Art Village, ha tentato di trasformare la coscienza pubblica di Pizzo Sella dipingendo, illegalmente, l’interno e l’esterno degli edifici vuoti. Aprendo un focus su Roma, il collettivo Stalker/Osservatorio Nomade sviluppa metodologie per mappare e reimmaginare il cambiamento urbano e sociale attivando particolari siti attraverso passeggiate o azioni collettive, spesso coinvolgendo le comunità vicine.

È invece, preoccupato per la transizione dal temporaneo al permanente, DAAR (Decolonizing Architecture Art Residency), lo studio artistico di Sandi Hilal e Alessandro Petti, che chiede la trasformazione dei campi profughi in patrimonio culturale. Il campo profughi come struttura costruita per essere demolita rappresenta una soluzione a breve termine al fenomeno a lungo termine della migrazione globale causata da guerre, cambiamenti climatici, crisi sociali, economiche e politiche: «In quanto rappresentazione paradigmatica del fallimento politico, sono destinati a non avere storia né futuro; sono fatti per essere dimenticati»[24]. Luoghi che sono diventati emblematici del nostro presente soprattutto per quanto riguarda le migrazioni e le forme neocoloniali di relazioni globali e nazionali – come il muro di confine tra Messico e Stati Uniti, la moltitudine di campi profughi o le coste di Lampedusa – sono diventati fonte per numerose opere artistiche, fondendo spesso ricerca etnografica e antropologica con l’appropriazione artistica.

Come possono gli artisti agire all’interno di questi luoghi liminali, contestati, spesso illegali, provvisori e precari? Come possono gli artisti raccontare eticamente storie del genere, che implicano intrecci immensamente complessi del destino umano? E come possono ancora gli artisti dare voce e spazio alle modalità di rappresentazione che le persone e le comunità scelgono in prima istanza? Quali sono le forme dei monumenti che non celebrano un evento o una persona nella Storia ma commemorano un momento, una struttura – qualcosa di non definito – la cui storia, identità e realtà sono ignorate, trascurate o cancellate, e la cui stessa esistenza, tuttavia, ci parla in modo così crudele della condizione umana nel XXI secolo? Ciò ci porta a comprendere come la sfida più grande sia il raggiungimento di un’etica che ci conduca a lavorare ‘con’ e non ‘su’ le persone in situazioni così precarie e disumane, senza oltrepassare il limite del cinico o, peggio ancora, appropriandosi della miseria e dell’ingiustizia umana e strumentalizzandola per la propria causa. Il punto cruciale, mi sembra, sia appunto quello di un modus operandi basato non sul ‘su’ ma sul ‘con’.

Luoghi come i campi profughi, le baraccopoli o le vaste periferie urbane sembrano non avere una storia o un futuro. Per lo più trascurate, costruite con noncuranza o improvvisate, queste infrastrutture globali potrebbero essere viste come marginali al processo decisionale sociopolitico, economico ed ecologico da parte di chi detiene il potere. Potremmo definirle come monumenti indesiderati del nostro presente? Sono luoghi che la politica e la società cercano continuamente di rendere invisibili, ripetutamente sgomberati, i cui abitanti, che spesso vi risiedono forzatamente, sono soggetti a continui sfollamenti e abusi. Sono luoghi le cui tracce di esistenza sono state ripetutamente cancellate. Spazi a cui, in definitiva, si nega un’esistenza e una storia. Un posto del genere era la ‘Jungle’ di Calais nella forma assunta tra il 2015 e il 2016. Istituita nel 2002, essa raggiunse un picco di popolazione durante la ‘crisi migratoria’ nel 2015 e venne completamente demolita nel 2016. La storia della ‘Giungla’ è la testimonianza di un progetto europeo fallito negli orizzonti di solidarietà e cura collettiva. Tuttavia, essa rappresenta anche un tentativo collettivo di creare un luogo di solidarietà e speranza per protestare contro la logica di confine e la politica di esclusione dell’Unione Europea. Quindi, la sua vicenda, le molte storie e appropriazioni del suo caso, risultano fortemente ambivalenti. La stessa ambivalenza si manifesta anche rispetto a una breve deviazione etimologica: il campo profughi venne collocato nelle immediate vicinanze del porto di Calais, in Francia, lungo le rive della Manica; il termine ‘giungla’, originariamente coniato dai migranti per circoscrivere ironicamente le dure condizioni nei campi profughi, deriva, come suggerito da Michel Agier, dalla parola Pashtu dzjangal, che significa «foresta» o «area boschiva», ed è entrato in uso in Pakistan negli anni Settanta per riferirsi ai campi profughi afgani[25]. Gli afgani in esilio hanno utilizzato la parola per descrivere le varie infrastrutture temporanee in cui abitavano e, di conseguenza questo termine ha assunto oggi il significato generico di insediamento precario destinato ai migranti. Le autorità francesi chiamarono questo campo ‘tollerato’ Camp de la Landelande significa «brughiera» o «steppa» – in relazione sia alla serie di accampamenti sparsi nella zona, sia alla loro posizione tra dune e pianure, su un terreno che è una ex discarica ancora contaminata[26]. Il termine è stato poi anche adottato dai media e dai politici per riferirsi a uno stato di eccezione e caos, degradando gli abitanti di questi luoghi a ‘selvaggi’ e ‘altri’, una retorica che, in passato, ha svolto un ruolo significativo nel progetto occidentale di colonizzazione e relativa sua narrazione. Il motivo per cui sto rintracciando il lignaggio e l’uso controverso dei nomi per i campi profughi di Calais è volto a indicare l’impossibilità, qui evidente, per migranti e rifugiati, di avere una voce e avere il controllo della propria storia all’interno di un dibattito e di un processo politico che li rende continuamente testimoni passivi e rifiuta loro qualsiasi rappresentanza politica. Per quanto riguarda gli interventi artistici in questo campo, dunque, il ruolo dell’etica non può mai essere sottolineato abbastanza. New Men’s Land (2015-2016) di Gian Maria Tosatti è un’opera che conta diversi livelli e diversi episodi. Il suo processo può essere letto come un ipertesto dedicato alla grande opportunità politica, e al successivo fallimento, di ciò che rappresenta il progetto europeo. La Giungla di Calais è diventata un simbolo di una cosa e dell’altra. Il progetto di Tosatti è composto da una serie di interventi realizzati in quell’area e mi piacerebbe concentrarmi su due diversi concetti relativi all’idea di monumento che attraversano New Men’s Land e rappresentano, ciascuno, una possibile attitudine per la politica della memoria. Stimolato dalla distruzione del campo, l’artista decise di dorare un residuo dell’Atlantic Wall di Hitler, rimasto sulla spiaggia di Calais. In questo modo ha trasformato un frammento preesistente del passato – un monumento al passato fascista ed escludente dell’Europa – in una stella dorata, come quelle presenti sulla bandiera europea. È una stella caduta: un monumento a una politica europea presente che sta ripetendo il suo passato invece di reinventarsi e mantenere una promessa iscritta nell’atto di fondazione dell’Unione Europea come luogo di diversità e inclusione. In origine Tosatti aveva progettato la monumentale scultura di un arcobaleno, svettante sopra il campo profughi e che non fu mai realizzata a causa dei permessi rimasti in sospeso fino all’avvenuta demolizione del campo. L’arcobaleno, come segno universale di alleanza e differenza, doveva essere visto da lontano, simboleggiando un nuovo capitolo pieno di speranza rispetto alla solidarietà europea. Una nuova identità, con al centro la differenza come elemento unificante, contrapposta a una storia di colonialismo, esclusione e «omogeneità della popolazione e suo radicamento alla terra», come affermato nei Trattati di minoranza del 1919-1920, dopo la prima guerra mondiale. Questi ultimi hanno connesso il «diritto ad avere diritti» (Hannah Arendt) al concetto di cittadinanza all’interno degli Stati-nazione europei allora appena fondati, incorniciati da confini, i cui bordi sono stati tracciati indipendentemente dalle differenze etniche prevalenti. Contro ogni etichetta esterna, l’arcobaleno avrebbe dovuto ergersi come segno universale di una lingua basata sull’idea di «linguaggio come traduzione» (Étienne Balibar), avrebbe dovuto aiutare la comunità a costruire un’autonarrazione al fine di acquisire un’autonomia e un’agibilità politica in un dibattito sul proprio destino che, fino a quel momento, non la vedeva protagonista, bensì spettatrice passiva. Come molti artisti e pensatori, Tosatti ha così teorizzato e stilizzato la Giungla di Calais quale luogo e momento storico, in cui persone provenienti da tutto il mondo si sono riunite alla pari per costruire un’infrastruttura urbana, una ‘nuova capitale d’Europa’, riconfigurando un canone etico a vantaggio della comunità europea ‘che verrà’. Nel loro libro Lande. The Calais ‘Jungle’ and Beyond, Dan Hicks e Sarah Millet, attraverso una metodologia archeologica contemporanea, propongono di leggere la Giungla di Calais come «un luogo attraverso il quale ricordare le esperienze umane non documentate del prossimo presente, un lieu de mémoire per il recente passato», piuttosto che «un prototipo urbano, una profezia o un sito per qualche tautologico ‘patrimonio futuro’»[27]. Il punto focale diventa, quindi, il processo della nascita di un monumento piuttosto che la sua forma finale. Il loro approccio riunisce le dinamiche opposte all’interno del campo «come luogo di frontiera disumanizzante, governo e violenza da un lato, e dall’altro come ‘spazio di apparenza’ e protesta, e come luogo di confronto»[28]. Quando il campo di Calais era ‘vivo’, era uno spazio di performatività collettiva, in cui gli sforzi umanitari, civili, politici, artistici e architettonici si fondevano in una modalità senza precedenti per opporsi collettivamente alla gestione disumanizzante dei flussi migratori – di cui il campo stesso era testimonianza. Propongo questa lettura anche in riferimento all’opera di Tosatti. Individualmente, l’Arcobaleno e la Stella, attestano un momento particolare all’interno della storia del campo: il suo momento di apparizione e, al contempo, la sua distruzione. Letti insieme, raccontano una storia completa, piena di contraddizioni e lotte, di fallimenti e speranze. Tosatti ha reso omaggio all’importanza del processo nel suo insieme pubblicando, nel 2017, un libro su New Men’s Land dando conto dei momenti di costruzione dell’immaginario collettivo, ma anche della disillusione. Ora che il campo è scomparso da tempo, la sua esistenza, trasformata in un bagliore effimero nella Storia dalla massa del patrimonio materiale e digitale, sotto forma di documenti artistici, riecheggia anche come monumento nel nostro presente. Foucault ha descritto questa relazione tra l’oggetto e il suo passato nel modo più toccante: «nel nostro tempo, la Storia è ciò che trasforma i documenti in monumenti»[29].

New Men’s Land di Tosatti mirava a decostruire un confine istituito dalla trinità nascita/nazionalità/diritti che identifica il meccanismo secondo cui i diritti sono concessi ad alcuni, ma non ad altri, e l’impossibilità per i migranti di parlare e di essere ascoltati.

Il concetto di confine ha poi un’altra concezione nella pratica di Eugenio Tibaldi. Partendo dalla dialettica della megalopoli e delle sue periferie, l’artista si occupa di ciò che potremmo definire un limite insito nella percezione della maggior parte della società e della cultura moderna. Le zone di confine accerchiano e soffocano le città come organismi viventi, e ciò conduce a costruire per esse un’immagine di non-luoghi, realtà povere e degradate. Tale distinzione classifica, di conseguenza, gli abitanti e gli attori di entrambe le parti. Per Tibaldi le periferie sono spazi di aggregazione, le chiama «superluoghi», e le percepisce piene di vita, intensità e bellezza nascosta – le colonne portanti delle nostre città, se definite dal punto di vista socioeconomico. È lungo opposizioni come visibilità/invisibilità, legale/illegale e metastoria/storie collaterali che sviluppa la sua ricerca. Nel fare del periferico e della marginalità la propria metodologia di lavoro, Tibaldi sovverte i pregiudizi tipici legati a questi termini. Come nella teoria decostruttivista del margine di Gayatri Chakravorty Spivak, posiziona la politica intrinsecamente ideologica dietro ogni forma di creazione del mondo, mettendo in primo piano una non-strategia attiva e provvisoria. Un riposizionamento di queste politiche non si limita a invertire l’asse centralità/marginalità, che in sostanza riprodurrebbe le stesse relazioni gerarchiche, ma sottolinea e indaga la loro reciproca esistenza – il loro contrastarsi e coesistere in modi opposti[30]. La ricerca antropologica che sta dietro le opere a cui mi riferisco e che si concentra sulla produzione e l’impatto del para-design creato negli incroci della società, dell’economia e della cultura – interazioni, scambi e contaminazioni non documentate e nascoste – diventa oggetto della sua pratica artistica. Il suo lavoro si sviluppa a partire da ricerche a lungo termine in un luogo specifico, spesso vivendo nel territorio al fine di lavorare ‘con’ una prospettiva piuttosto che ‘su’ di essa. Ciò che ho descritto all’inizio di questo testo come uno scollamento tra ideologia e realtà nei monumenti storici presenti nel nostro spazio pubblico è qualcosa di cui s’avverte il sentimento anche nel metodo di lavoro e nella produzione di Tibaldi. È il partire dell’artista da quel particolare spazio di disconnessione tra immagine e realtà, nonché la sua radicale controscrittura della Storia, dell’estetica e della costruzione del mito ─ in definitiva la formazione di una realtà ─ che mi porta a citare qui il suo lavoro. Con un approccio simile a quello di Alterazioni Video, Tibaldi, negli ultimi vent’anni, ha costruito un atlante multimediale di tracce sociali, spaziali e temporali che riguardano le periferie e la marginalità. Il suo lavoro può essere visto come un monumento a questi luoghi, che si trovano in tutto il mondo, e ai molteplici processi relazionali e sociali che si sviluppano al loro interno. Egli accentua soggettivamente la bellezza che vi trova, né didattica né istruttiva. Il suo lavoro guida sottilmente i nostri sguardi verso le modalità di produzione di ciò che consideriamo il mondo e vede il suo motore nei ‘superluoghi’, siano essi di natura economica, industriale, consumistica, architettonica o sociale. Tibaldi è consapevole che ogni critica rappresenta sempre una certa posizione di cui bisogna assumersi la responsabilità. Assumendosi questa responsabilità, però, si è in grado di riconoscere gli altri come ugualmente costruttori di un territorio eterogeneamente edificato. Anche l’individuo è parte un territorio comune. In questa linea di pensiero, i confini diventano uno spazio attivo di produzione e non una linea che reciprocamente definisce e segrega. Questa riflessione apre la strada a nuove mappe e narrazioni che rifiutano di cadere vittime di facili relativizzazioni o di essere utilizzate (erroneamente) come riferimenti semplicemente simbolici. Alla discussione sui monumenti contemporanei, Tibaldi partecipa aggiungendo un aspetto importante relativo alla politica contemporanea dei rappresentanti e delle rappresentazioni: la metascrittura della coscienza pubblica e culturale attraverso la pubblicità. La prima serie Landscapes (2002-2004) consiste in fotografie di cartelloni pubblicitari, annunci e manifesti – per così dire monumenti del consumismo, del capitalismo e della cultura di massa – che egli modifica con l’acrilico bianco. L’enfasi soggettiva e la cancellazione degli elementi rivela paesaggi straniati, né fotografici né pittorici. Svuotati di qualsiasi traccia o contesto umano, questi skyline di segni forniscono un’immagine brutalmente onesta delle strutture nascoste del capitalismo che governano le nostre vite. Sono nascosti in piena vista. Solo Tibaldi li rende visibili, attestando così non solo le visioni binarie che dominano le società di tutto il Pianeta, ma anche i meccanismi poco trasparenti della loro riproduzione in un mondo capitalista.

Nel tentativo di trarre una conclusione provvisoria relativa ai processi di cui abbiamo parlato e che sono attualmente in corso, mi sono proposta di indagare le idee contemporanee che riguardano l’estetica e l’etica del monumento. Abbiamo così analizzato le due strategie principali per rendere il monumento un ‘cantiere’: la prima comprende pratiche artistiche che si riferiscono a contromonumenti, antimonumenti e monumenti temporanei, nonché pratiche archeologiche, archivistiche e immateriali contemporanee che decostruiscono le ideologie commemorate nei monumenti storici. La seconda, invece, costruisce nuovi monumenti a partire dalle condizioni contemporanee, sradicando vecchie narrazioni e canoni, avanzando nuove forme di metascrittura della Storia e applicando la cultura del monumento ad altre infrastrutture. Le nozioni di inerzia ed entropia diventano allora strumenti utili per indagare struttura, materialità del monumento e politica della memoria, e al contempo elaborare strategie artistiche volte alla loro decostruzione. Ciò che accomuna tutti questi approcci, indipendentemente dal luogo in cui si trovano gli artisti o il soggetto del loro lavoro, è un’indagine sulla condizione contemporanea, infestata da fantasmi del nostro passato che annullano sostanzialmente la possibilità di ogni futuro. Rendere il monumento un ‘cantiere’ del nostro presente è un processo che permette un cambiamento di paradigma nella dimensione politica, grazie alla quale memorizziamo e formiamo la coscienza sociale, pubblica e culturale. Entrambe le strategie richiedono intrinsecamente una nuova coscienza attorno alle nozioni di Storia, identità e rappresentazione. Considerare il monumento come metodologia per alterare metanarrazioni del passato o utilizzare il ‘cantiere’ come un nuovo canone attraverso il quale comprendere il presente, si profila come un proficuo percorso per il futuro (non solo italiano) dal momento che entrambe le traiettorie sembrano assumere una posizione centrale tra i processi e gli attori dell’evoluzione, dei cambiamenti e della perpetuazione della memoria e della coscienza pubblica.


[1] J. Assmann, Cultural Memory and Early Civilization. Writing, Remembrance, and Political Imagination, Cambridge University Press, 2011, p. 8.

[2] D. Upton, Nationalism’s Difficult Monuments, in A Difficult Heritage: The Afterlives of Fascist-era Art and Architecture, a cura di C. Belmonte, Silvana editoriale, 2023, p. 69.

[3] M. Fuller, Difficult How? Italy’s Inertia Memoriae of Fascism, ivi, p. 15.

[4] H. Foster, An Archival Impulse, in «OCTOBER» CX, 2004, pp. 3-22.

[5] M Foucault, The Archaeology of Knowledge and The Discourse on Language, Pantheon Books, 1972, p. 129.

[6] La mission e le note storiche della Quadriennale possono essere lette su<https://quadriennalediroma.org/en/about-us/> (12 aprile 2023).

[7] D. Haraway, Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective, in «Feminist Studies», XIV, III, 1988, pp. 575-599, in part. p. 583.

[8] H. Malone, Questioning the Idea of Difficult Heritage as Applied to the Architecture of Fascist Italy, in A Difficult Heritage: The Afterlives of Fascist-era Art and Architecture, a cura di C. Belmonte, Silvana editoriale, 2023, pp. 41-57, pp. 46-47.

[9] M. Fuller, Difficult How? Italy’s Inertia Memoriae of Fascism, in A Difficult Heritage: The Afterlives of Fascist-era Art and Architecture, a cura di C. Belmonte, Silvana editoriale, 2023, p. 17.

[10] Ibid., pp. 21-22.

[11] F. Guerisoli, M. Trulli, Monuments and Shared Values Towards a New Relationship with History, in «Quaderni d’arte italiana #history». n. 3, 2022, pp. 54-58.

[12] H. Arendt, Isak Dinesen: 1885-1963, in Men in Dark Times, Harcourt, Brace & World, 1970, p. 115.

[13] D. Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton University Press, 2020, pp. 46-47.

[14] N. Sternfeld, Counter-Memorials and Para-Monument, <https://hfbk-hamburg.de/de/projekte/conference-counter-monuments-and-para-monuments-contested-memory-public-space/gegendenkmäler-und-para-monumente/>, (17 aprile 2023).

[15] C. Invernizzi-Accetti, A small Italian Town Can Teach the World How to Defuse Controversial Monuments, in «The Guardian», 6 dicembre 2017, <https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/dec/06/bolzano-italian-town-defuse-controversial-monuments> (7 aprile 2023).

[16] B. Soh Bejeng Ndikung, The Curious Case of Olu Oguibe’s Monument for Strangers and Refugees, in «Frieze», 22 marzo 2021, 219,  <https://www.frieze.com/article/olu-oguibe-monument-strangers-refugees-controversy> (17 aprile 2023).

[17] Così come appare nell’abstract di C. Minarova-Banjac: Collective Memory and Forgetting: A Theoretical Discussion, Centre for East-West Cultural & Economic Studies, XVI, Bond University 2018 <https://pure.bond.edu.au/ws/portalfiles/portal/28738360/Collective_Memory_and_Forgetting.pdf (4 luglio 2023)>.

[18] A. Ferrini, Sight Unseen, <https://www.alessandraferrini.info/sight-unseen> (17 aprile 2023).

[19] R. Smithson, Entropy and the New Monuments, 1966, <https://holtsmithsonfoundation.org/entropy-and-new-monuments> (20 aprile 2023).

[20] An Interview with Robert Smithson, 1973, a cura di M. Roth, in Robert Smithson, The Museum of Contemporary Art Los Angeles, University of California Press, 2004, p. 93.

[21] Chakrabarty 2020, pp. 46-47.

[22] Alterazioni Video, Incompiuto siciliano, in «domus», 9 maggio 2017, <https://www.domusweb.it/en/photo-essays/2017/05/09/alterazioni_video_incompiuto_siciliano.html> (21 aprile 2023).

[23] Devo questo riferimento a Robert Smithson che lo usa nel suo testo Entropy and the New Monuments (1966) per riflettere criticamente sulle condizioni delle città moderne.

[24] S. Hilal, A. Petti (a cura di), Refugee Heritage, Art and Theory Publishing, 2021.

[25] M Agier, Nouvelles réflexions sur le lieu des Sans-État: Calais, son camp, ses migrants, in «Multitudes», 2016, 64, pp. 53-61, in part. p. 56.

[26] D. Hicks, S. Mallet, Lande: the Calais ‘Jungle’ and beyond, Bristol University Press, 2019, p. 2.

[27] Ibid., p. 81.

[28] Ibid., p. IV.

[29] M Foucault, The Archaeology of Knowledge and The Discourse on Language, Pantheon Books, 1972, p. 7.

[30] G. Deleuze, F. Guattari, Anti-Oedipus. Capitalism and Schizophrenia, Bloomsbury, 2013, pp. 396-98.