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La bellezza è in strada
Cambiare preposizione per cambiare il mondo

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«La beauté est dans la rue» è lo slogan di un famoso manifesto realizzato nel maggio Sessantotto in Francia dall’Atelier Populaire, officina creativa della rivolta. L’immagine rappresenta una ragazza nell’atto di scagliare un sampietrino, e riprende il famoso quadro di Eugène Delacroix intitolato La libertà che guida il popolo, con la Marianne che sulle barricate sventola una bandiera impugnando un fucile con baionetta. La strada è da sempre lo spazio dove si conquistano l’uguaglianza e la libertà, lo spazio delle lotte e, quindi, anche della bellezza. È nella strada che si fa la Storia, che nascono le idee e che, tutti insieme, si mette al mondo il mondo. Non era ciò che sostenevano anche le avanguardie storiche quando invitavano a disertare i musei, le gallerie e gli spazi istituzionali e a portare l’arte nelle strade? Il Sessantotto, ultima rivoluzione moderna, aveva uno spirito futurista e dadaista insieme, tanto che potremmo dire che il XX secolo si apre con le avanguardie e si chiude proprio con il Sessantotto. Ma la strada non è stata anche il luogo della Resistenza (pensiamo, solo per fare un esempio, alle quattro giornate di Napoli e alla difesa di Porta San Paolo a Roma), delle Repubbliche soviettiste in Germania dopo la prima guerra mondiale, della Comune di Parigi del 1871, delle barricate del 1848, della Rivoluzione francese, delle molte jacquerie del XVI e XV secolo, fino al Tumulto dei Ciompi a Firenze? Allo stesso modo, procedendo ancora a ritroso, si può dire che all’origine stessa della civiltà occidentale vi sia proprio la strada, o meglio la piazza: l’agorà, intesa come spazio aperto dove la cittadinanza si incontra, discute e decide della cosa pubblica. La filosofia stessa, come metasapere specifico fondato sull’interrogazione e sull’agonistica dialogica, nasce con Socrate nelle strade e nelle piazze dell’Atene del V secolo a.C. Senza quello spazio pubblico la filosofia non potrebbe essere concepita come sapere critico che entra in conflitto con la città, proprio come accadde con Socrate, processato perché accusato di aver turbato le tradizioni e corrotto i più giovani con le sue domande. La strada è luogo d’origine della filosofia in quanto spazio democratico per eccellenza, e, quindi, dimensione entro la quale la stessa tradizione che ne ha favorito lo sviluppo può essere messa in discussione, non certo per eliminare quello spazio, ma piuttosto per farlo funzionare in maniera ottimale e fino in fondo. Anche il teatro, del resto, era azione svolta all’aperto, in uno spazio pubblico, dove i cittadini erano chiamati a incontrarsi e a partecipare a un rito collettivo pensato per rinsaldare la comunità.

La strada e il conflitto sono dunque indissolubilmente uniti, e costituiscono la radice della nostra democrazia assieme alla filosofia che, come già specificato, corrisponde a un sapere interrogativo costruito attraverso una disputa pubblica alla quale tutti sono invitati a partecipare. Non è nel privato delle abitazioni, né tantomeno nell’isolamento dell’anacoreta, che può darsi il pensiero filosofico il quale, invece, elegge come suo ambiente la città, le sue strade e le sue piazze. Non è un caso che l’antica Grecia considerasse lo spazio privato come precipuamente femminile, e quello pubblico come tipicamente maschile: basterebbe leggere Le donne al parlamento di Aristofane (commedia grottesca che ironizza su un mondo dove a fare politica sono le donne) per comprendere il valore negativo associato al primo termine (pregiudizio che è anche posto alla base di una serie di false dicotomie come natura e cultura, attività e passività, lunarità e solarità, femminilità e mascolinità). Radicalizzando ancora questa linea di pensiero sarà Aristotele a pensare l’‘idiota’ come individuo privato, ripiegato nella propria esistenza e avverso alla relazione con l’altro, mentre l’‘uomo’ – animale politico per eccellenza ‒ come colui che vive nella dimensione pubblica della strada.

Certo, la costruzione della contrapposizione tra sfera pubblica e privata ha il limite patriarcale che abbiamo avuto modo di sottolineare e, di conseguenza, anche quello di tacere la radicale politicità della dimensione privata – rivendicata dal movimento femminista che ne rileverà anche le problematiche («il personale è politico») ‒, escludendo e assoggettando gerarchicamente un genere all’altro e costruendo un’idea ‘cartesiana’ del mondo e dello spazio pubblico che prima il Sessantotto e il femminismo della differenza e poi il cyberfemminismo e le teoria queer, hanno decostruito pezzo per pezzo, componendo un’idea di spazio pubblico ‘multiversale’.

Certamente nell’avvicinamento tra sfera esistenziale e politica non si può non sottolineare il ruolo svolto dalla letteratura contemporanea, e soprattutto del romanzo di Jack Kerouac On the Road, pubblicato nel 1957 e considerato il manifesto di un’intera generazione che ha identificato la strada stessa con la vita. Il viaggio, il movimento, l’avventura e la scoperta, la vita stessa appunto, si svolgono sulla strada, uno spazio inteso come metafora di un’esistenza che si fa politica suo malgrado. Se per i rappresentanti della Beat Generation quest’ultima sarà ancora associata a un’esperienza tutta individuale, solo dieci anni dopo le piazze e le città di tutto il mondo diverranno il luogo della grande rivolta collettiva e generazionale. E l’arte in tutto questo? Se pensiamo alla flânerie di Baudelaire, notiamo come la dimensione della strada sia consustanziale al modernismo stesso, dato che la metropoli e i suoi spazi pubblici – come faceva notare Georg Simmel agli inizi del secolo scorso ‒ divengono luoghi della vita dello spirito. E così, come ricordavamo all’inizio di queste righe, le stesse avanguardie storiche, e in particolare il futurismo e il dadaismo, inviteranno l’arte a scendere nelle strade, ma anche a fare di queste ultime e della vita nelle città, delle vere e proprie opere d’arte. Nel secondo dopoguerra sarà soprattutto l’Internazionale Situazionista a propugnare l’idea delle avanguardie e, quindi, a vedere – con l’intenzione di superare il concetto borghese e moderno di opera d’arte – nella strada il luogo dell’evento artistico-politico per eccellenza, realizzato attraverso la pratica della deriva urbana e il metodo della psicogeografia. Quindi sarà il movimento italiano del Settantasette, sul quale non a caso saranno evidenti le influenze del dadaismo e del futurismo, oltre che di Fluxus e dell’Internazionale Situazionista, a fare di essa il luogo performativo per eccellenza, trasformando le manifestazioni politiche in happening artistici ai quali parteciperà anche Piero Gilardi con il collettivo La Comune. Sarà allora, prima e dopo il Settantasette, il grande contenitore con il denominato ‘arte pubblica’ a ridisegnare le possibilità di uno sconfinamento dell’arte fuori dagli spazi istituzionali, quindi in rapporto diretto con le strade, le piazze e i quartieri urbani.

In Italia, in particolare, oltre al lavoro di Alberto Garutti, recentemente scomparso, e degli Stalker (solo a titolo di esempio), in anni più recenti è stata soprattutto la generazione dei quaranta-cinquantenni a sviluppare un’idea di arte in relazione alla strada. Eugenio Tibaldi e Gian Maria Tosatti, Margherita Moscardini e Marinella Senatore, Bianco-Valente e Andreco, tra gli altri, hanno definito una serie di pratiche artistiche prevalentemente rivolte a costruire una relazione con lo spazio comune, nella convinzione che la democrazia si possa costruire e rigenerare anche attraverso processi partecipati innescati da opere o azioni artistiche sul territorio. Restituire alla dimensione pubblica ciò che è stato privatizzato o rischia di esserlo, ricostruire un tessuto urbano degenerato dall’incuria e dall’abbandono, rendere partecipe la comunità dell’impatto ambientale causato da scelte politiche che si ripercuotono inevitabilmente sulla qualità della vita e quindi della salute dei cittadini stessi. Sembrano essere queste le chiavi di volta di un rapporto con la strada che più che essere rivoluzionario si potrebbe definire radicalmente riformista. Nessuna idea romantica di tempesta e assalto, ma piuttosto il clima temperato di un impegno quotidiano che rimanda allo slogan del Sessantotto, sostituendo però la preposizione ‘in’ con la preposizione ‘con’: «La bellezza è con la strada». Questo sembra dire l’arte italiana del XXI secolo.