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Italia anno zero
La strada come driver essenziale di una generazione

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In Germania anno zero (1948), il piccolo Edmund Koehler, cammina come un cane randagio, per le strade di una Berlino bombardata. I suoi passi sembrano avventurarsi tra le rovine di un set cinematografico in disarmo. Ed è paradossale, perché tutto ciò sarebbe quanto di più lontano dall’universo poetico del neorealismo. Non c’è finzione, infatti, nei film di Rossellini, De Sica e Visconti di quegli anni. Le strade sono le strade, i cieli sono i cieli e finanche le persone sono le persone. Non attori. Donne e uomini confusi coi testimoni di quel tempo e di quelle tragedie. La finzione, orrenda, criminale e pericolosa, era nel mondo, nella retorica del fascismo, nella propaganda di Goebbels. Quelle finite in cenere erano le strutture di quel grande teatro di posa che fu il Terzo Reich. Bandiere rosse con la croce uncinata alte fino al cielo, interi stadi per le adunate, una marea di comparse in camicia bruna da far impallidire qualsiasi kolossal americano degli anni successivi. Un grande teatro della morte, ma prima di tutto un grande teatro. E quando il teatro va in fiamme – come nel finale di un film di Tarantino[1] –, quel che resta è la strada, piena di gente, spaesata, quella sopravvissuta, quella che non è sepolta sotto le macerie incandescenti.

La fine del XX secolo per l’Occidente ha coinciso con una fase storica complessa. Un ultimo momento di preteso splendore, una narrazione un po’ incatenata a sé stessa, fuori tempo, fuori luogo, sospesa fra tre presidenze americane controverse (quelle Reagan, Bush e Clinton) cui si aggiunge, nel 2001, quella del secondo Bush che sembra, appunto, un alieno, un’ombra allungata del vecchio secolo sul nuovo che, ormai, ragiona per altre categorie e che, invece, si trova impelagato in una lotta al terrorismo che sembra intralciarne altre, più urgenti e determinanti. Il tutto si svolge in un quadro che sembra lo strascico di un globalismo coloniale già, però, rimpiazzato da tempo da un globalismo etico nel sentimento e nella quotidianità dei cittadini. A tutto questo si aggiunge un’inquietudine crescente – che non è ancora piena consapevolezza – generata dal dubbio che la rivoluzione digitale abbia portato, in sostanza, più all’isolamento che alla connessione, che la grande arena social abbia coperto, col fragore di milioni di chiacchiere indistinte, la costruzione di ipotesi e ragionamenti condivisi sul nostro futuro. È forse per questo che, mentre urbanisticamente e istituzionalmente il concetto di spazio pubblico entrava in crisi conclamata, un’intera generazione decideva di riversare in strada, nell’arena della vita vera, le proprie urgenze. Storicamente, ai due apici di questa parabola complessa stanno due eventi, corrispondenti al G8 di Genova del 2001 e alla pandemia da COVID-19 del 2020. Il primo, nella sua drammaticità, si è presentato al mondo di allora come un oggetto difficilmente identificabile: ci vorranno vent’anni, infatti, per giungere a coglierne il senso profondo. All’epoca dei fatti, ci troviamo ancora in un mondo in cui la televisione è il punto di atterraggio di ogni diatriba, di ogni discussione. In televisione si aprono e si chiudono le crisi, tanto che una trasmissione televisiva della Rai sarà, proprio in quegli anni, rinominata ‘la terza camera’[2] dello Stato. Questo restituisce, in parte, il senso di impreparazione delle forze dell’ordine italiane, nel far fronte alla legittima protesta che si diffuse per le strade del capoluogo ligure e la profonda incapacità di gestire un fenomeno nel quale sembrava di poter avvertire l’eco di stagioni storiche in cui la strada corrispondeva all’ultima linea di difesa dei cittadini – dalla Rivoluzione francese alle proteste per il ventennale massacro del Vietnam. Quel che accadde a Genova, però, è Storia: una pagina nera che in questo contesto, tuttavia, ci aiuta a comprendere come la strada si sia trasformata in un imprevisto strumento di mediazione politica già nel primo anno di questo nuovo secolo[3]. La parabola, si chiude nel 2020 e nei mesi seguenti, quando i traumi della pandemia, dell’isolamento, delle connessioni da remoto, della DAD[4], portano in evidenza, per via negativa, ossia studiando gli effetti della sua forzata sospensione, il valore imprescindibile dello spazio pubblico nella costruzione di una società, dei suoi riti e delle capillari conseguenze comportamentali che investono ogni cittadino. In mezzo, tra questi due punti c’è tutto il resto, dai Fridays for Future alla distruzione dei monumenti pubblici nelle capitali dell’Occidente democratico che echeggiano, in modo un po’ sinistro e caricaturale, gli abbattimenti di statue verificatisi alla caduta dei regimi totalitari in Medio Oriente o nei territori ex sovietici, fino agli scontri di piazza provocati dalla morte di cittadini neri e alla emersione di un movimento come Black Lives Matter. Non stupisce, quindi, che l’arte di questo quarto di secolo abbia proceduto su due linee guida essenziali: quella legata al performativo e, soprattutto, quella relativa all’arte partecipativa, così come aveva teorizzato Claire Bishop nel suo Inferni artificiali (Sossella Editore, 2015).

L’Italia, in questo quadro è un caso studio particolare. Mentre, infatti, nel resto del mondo la televisione e i media hanno costituito gli araldi della politica, nel nostro Paese questi ultimi e la politica si sono fusi in modo ufficiale per almeno vent’anni attraverso il potere costituito attorno alla figura di Silvio Berlusconi. Ciò ha prodotto un’urgenza ancora più lancinante: quella di trovare una via di uscita in quell’infinito gioco di specchi che ha reso quasi perfetto il paradosso della società dello spettacolo. È in ragione di questa urgenza che nell’arte del XXI secolo, il rapporto tra scena italiana e internazionale, nella lettura e percezione dei fenomeni globali, si consolida e gli artisti attivi dai primi anni del Duemila a oggi hanno dato corpo a una meticolosa e puntuale prospettiva italiana integrata in un dibattito culturale di respiro più internazionale. Ma in questo fenomeno vanno anche notate le differenze che l’idea di spazio pubblico registra a latitudini differenti e in ragione di storie diverse. Per un Paese come gli Stati Uniti d’America, infatti, la riflessione sullo spazio pubblico e sul valore della ‘strada’ è qualcosa di relativamente recente, legato a un pensiero programmatico fondato sulla necessità di delineare la mappa di alcune grandi metropoli – ne è un esempio lampante la scelta costruttiva che sta alla base dell’edificazione del Seagram Building di Ludwig Mies van der Rohe. Per Paesi come la Francia e l’Italia, invece, la strada non è mai stato un luogo da progettare, ma il grande mare da cui si sono levate onde anomale capaci di fare e disfare tutto quello che c’era intorno o, come nel caso della città di Napoli – non a caso una città importante per l’arte italiana di questo secolo –, di costituire un vero e proprio ecosistema sociale, uno spazio di mutualità alternativo (tra gravi ombre di illegalità e luci di solidarietà) alle profonde carenze dello stato.

Con l’inizio del XXI secolo, dunque, e con l’entrata in crisi del totalitarismo mediatico berlusconiano, la strada, in un paese come l’Italia, torna a recuperare il suo ruolo di spazio pubblico per eccellenza, spazio della realtà e del dialogo, soprattutto nell’arte che aveva perso il treno del neorealismo postbellico e recuperato un atteggiamento ‘stradaiolo’ solo in alcune manifestazioni poveriste che, tuttavia, si legavano più alle ritualità del Sessantotto che alla necessità di ripartire dalla tabula rasa prodotta all’indomani della caduta di grandi illusioni. Da un clima simile ─ il vacillamento e poi il crollo di una propaganda pervadente ogni livello della comunicazione sociale ─ si sono sviluppati percorsi in cui la strada si è rivelata essere il driver essenziale non solo nelle pratiche, ma anche nelle dinamiche di relazione col pubblico e di veicolazione dell’arte contemporanea.

Gli esempi sono numerosi, quasi innumerevoli. Citarli tutti sarebbe difficile, ma considerarli nella loro mole ci fa comprendere come, nei fatti, il fenomeno non corrisponda soltanto a un elemento comune fra le poetiche ma si presenti piuttosto come una nota sospesa, un diapason che le allinea tutte armonicamente. Per quel che riguarda la generazione nata tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta possiamo almeno segnalare Giorgio Andreotta Calò, di cui su questa rivista s’è recentemente citata la performance Genova Ventimiglia Genova (2013)[5], realizzata proprio per le strade percorse dal corteo del G8 di Genova. Ma, dello stesso artista, si può anche citare la potente opera scultorea realizzata alla Biennale di Carrara del 2010, e l’iconico video Volver (2008) in cui una barca sospesa in aria naviga su una grigia Milano. La necessità della strada come viaggio, ma anche come filo di un pensiero che abbraccia lo spazio sociale e civile dell’Europa è, invece, il tema dell’opera presentata alla Biennale di Venezia del 2011 e nata, appunto a seguito di un viaggio a piedi tra Olanda e Italia attraverso le rotte che collegano i due Paesi. Gli esempi dell’artista veneziano servono a illustrare un’attitudine piuttosto condivisa a usare la strada non come oggetto di una determinata ricerca, ma come vero e proprio piano di sviluppo di una poetica. Lo stesso atteggiamento si rileva nel lavoro di Ettore Favini che sulla strada, i suoi significati e le sue storie, ha condotto una ricerca duratura. Una figura come Eugenio Tibaldi, di contro, ha letteralmente abitato la strada nei suoi circa vent’anni di militanza residenziale nell’hinterland napoletano, registrando i sintomi del sentimento albergato in questo Paese mediante una lettura delle escrescenze, delle superfetazioni, degli abusi condotti dalle comunità delle aree periferiche sul corpo dello spazio urbano, delineando una prospettiva paradossale del suo essere spazio pubblico. E poi, ancora, ci sarebbero da citare molti altri artisti, come Margherita Moscardini, che, a suo modo, ha rintracciato nella strada il luogo di sedimentazione dei frammenti della Storia, come nella scena di un incidente o, peggio, di un attentato; o Andrea Mastrovito che, in questi anni, ha realizzato grandi fregi, quasi epici, in cui la strada diventa un paesaggio entro cui si srotola la storia dell’umanità o anche la storia di questi anni tormentati. La strada è un elemento essenziale anche nella poetica di artisti come Marinella Senatore e Giuseppe Stampone, entrambi attenti – specialmente nei progetti di arte pubblica – a utilizzarla come luogo di incontro e confronto tra esseri umani. La strada persiste, in maniera incisiva e con una certa costanza, anche nei lavori di Elisabetta Benassi, Botto e Bruno e il duo napoletano Bianco Valente. Gian Maria Tosatti, oltre che teorico di un approccio neorealista declinato alle arti visive, ha fondato sulla strada e sull’incontro coi suoi abitanti la poetica dei suoi grandi cicli di installazioni ambientali, arrivando a far convergere il concetto di ritratto della città con quello di ritratto esistenziale di una comunità. Allo stesso modo, questa tendenza a raccontare l’umano attraverso lo spazio pubblico è rintracciabile anche nei lavori di Simone Cametti, di Francesca Grilli e di Rosa Barba. Una generazione, quindi, quella degli artisti più o meno quarantenni, che ha sviluppato con la strada un rapporto di reciprocità: l’ha vissuta partecipando ai momenti di contestazione in cui è stata protagonista, e l’ha usata, celebrata, come dispositivo narrativo essenziale, come ‘grado zero’ di una realtà che mostra i suoi taglienti profili di chiarezza, tra le due inquietanti nubi della distrazione televisiva e del burrascoso e oscuro mare magnum digitale.


[1] Inglourious Basterds (Bastardi senza gloria), 2009.

[2] L’espressione, non riconducibile a un particolare cronista, si riferisce alla trasmissione Porta a Porta, condotta dal 1996 dal giornalista Bruno Vespa.

[3] Su questo vedi anche l’articolo: F. Disconsi, F. Guerisoli, Ci sono altri mondi, ma stanno in questo. La strada come centro d’azione sul futuro, in «Quaderni d’arte italiana, VI, 2023, pp. 64-68.

[4] La ‘didattica a distanza’ messa in opera dalle scuole italiane e di larga parte del mondo durante i lockdown che ha fatto emergere moltissime patologie sociali nate dalla separazione degli individui dai rituali sociali. Su questo diversi studi sono stati pubblicati da Chiedimi come sto, condotto da Ires Emilia Romagna e promosso da Rete degli studenti medi, UDU – Unione degli Universitari e dal sindacato dei pensionati SPI CGIL, a The Impact of COVID-19 on Children. UN Policy Briefs delle Nazioni Unite.

[5] Nell’articolo già citato di Disconzi e Guerisoli.