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Incursioni laterali

Un dialogo aperto tra visual e performing arts
Chiara Fumai, “Chiara Fumai legge Valerie Solanas”, 2013, videoinstallazione, video monocanale, colore, suono, 10’34”, dimensioni variabili, veduta dell’allestimento della mostra “Chiara Fumai. Poems I Will Never Release 2007-2017”, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, 2021, foto Ela Bialkowska.

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Oggi l’arte si fa con tutto e ovunque, senza confini linguistici e territoriali. È un fare ‘diffuso’ che trova mimetismo assoluto con il mondo senza l’obbligo di alcuna conformità a un criterio di lingua e di ambiente: ci appare come una pratica ‘fuori da sé’, slegata dalla specificità di una singola disciplina, non corrispondente a nessuna tecnica e/o teoria predefinita.

Le arti contemporanee hanno il merito di essere intrinsecamente ibride, intersecanti, convergenti e caotiche: sono in grado di indagare ad ampio raggio le dinamiche sociopolitiche e culturali, facendo leva e ponendo l’attenzione su differenti prospettive, che coinvolgono i più disparati linguaggi espressivi. Quello che potremmo chiamare trasversalità, appare nel nostro presente come qualcosa di nomadico e, per usare un termine quanto mai attuale, precario. Lo stesso significato del termine ‘trasversale’ come ‘obliquo’, che ‘attraversa’,che‘è posto di traverso’, ne fa metafora di un pensiero dinamico, che coincide continuamente con l’esperienza.

Tuttavia, non possiamo considerare che questo nomadismo tra linguaggi o tra modalità esperienziali sia esclusivo del nostro presente. Greil Marcus, in un saggio del 1989, traccia ciò che definisce Storia segreta del XX Secolo, trovando numerosi punti di continuità e di contatto tra esperienze che riguardano diversi ambiti, a partire dal dadaismo, passando per il situazionismo e l’internazionale lettrista, fino ad arrivare al punk e ai Sex Pistols. Allo stesso modo, la secessione viennese è stata giustificata dal suo motto di opera totale; concetto, comunque, preso dal Gesamtkunstwerk di Wagner, mentre lui, a sua volta, l’aveva identificata chiaramente nella tragedia greca. Parlare di Gesamtkunstwerk o di teatro greco mostra solo metà della figura, per raggiungere l’altra metà tocca fare il salto filosofico, storico, logico, scientifico e artistico avuto agli inizi del Novecento grazie a Joyce, Freud, Heisenberg, Duchamp.

Vediamo, dunque, come ciclicamente torna una certa inclinazione a guardare lateralmente, fuoriuscendo da etichette, classificazioni o categorizzazioni più o meno riuscite, che circoscrivono e limitano l’ambito di azione di determinate pratiche. Si tratta, in ultima istanza, di indagare o prendere in considerazione tutte le ‘arti’ in modo da stabilire le dinamiche di cambiamento della società di massa. Eppure, la critica tende a ostinarsi a definire nuovi parametri o creare delle nomenclature per inquadrare le possibili interazioni tra le varie declinazioni delle arti contemporanee. In questo senso, gli interstizi, le convergenze e le linee intersecanti nelle diverse pratiche tendono a nascondersi o a essere nascoste dietro definizioni o metodologie come multidisciplinarietà, ibridazione, contaminazione e, appunto, trasversalità.

Queste etichette sono il risultato o la condizione essenziale della critica nel postmoderno, intesa come superamento di un sapere ancorato alla specificità di una singola disciplina. Dopo la perdita delle grandi narrazioni e la conseguente super specializzazione, rimane l’esigenza di trovare una modalità per palliare la mancanza di conoscenza diffusa. In quest’ottica forse potremmo traslocare dalla critica alla branca più ampia dei Cultural Studies, in cui sono prese in considerazione le plurirealtà delle arti contemporanee. In tal senso, la trasversalità non diventerebbe una nuova categoria né un concetto da teorizzare, ma una pratica esperienziale, una condizione esistenziale generatasi in rapporto alla nostra storia delle idee. Inoltre, più che di trasversalità in senso lato, si potrebbe parlare di un ‘fare trasversale’ sia nell’arte che nella critica, in quanto modalità operative che nel loro agire attraversano, toccano o incontrano più linguaggi, oppure di ‘esperienza trasversale’ che investe il pubblico che esperisce un fare artistico-critico trasversale.

L’attualità ci impone di prevalere sulla pretesa di definizione e ci incoraggia, per mezzo della filosofia, dell’arte e della scienza, a creare concetti per squarciare il caos, attraversarlo e imparare a convivere con esso. La trasversalità ci permette di farlo, di oltrepassare ogni barriera e provare a connettere, rimettere in discussione, proporre nuovi paradigmi, evitando la fuga come mezzo di costruzione di un surrogato di un mondo tassonomizzato, in cui tutto è al proprio posto.

Questa messa in discussione del proprio linguaggio, ci consentirebbe di affacciarci in altri ambiti e di acquisire adeguati strumenti per leggere la complessità metodologica della progettazione culturale contemporanea. L’equivoco nasce dalla sovrapposizione tra linguaggio e pensiero, ricerca etimologica e processi mentali, e allora, per dirla con Rosalind Krauss, bisogna «abbandonare il linguaggio ed esserne abbandonati», perché in esso possa apparire la rivelazione di un procedere informe, polimorfo, inafferrabile. 

La ciclicità che veniva accennata sopra e il ritorno dell’esigenza di queste inclinazioni laterali si sono rivelate negli ultimi anni in modo prepotente, seppur non completamente generalizzato, sia in ambito internazionale che nazionale. Se vogliamo guardare alle pratiche, le mostre o i progetti che hanno caratterizzato gli ultimi anni, non possiamo non ricordare The Visitors diRagnar Kjartansson all’HangarBicocca di Milano nel 2013, in cui la musica, la dilatazione temporale della performance, la dualità della realtà e della rappresentazione, il principio di collaborazione, erano così ben amalgamati da risultare inscindibili. Ancora più presenti nell’immaginario collettivo dell’ultimo decennio, soprattutto all’interno del contesto territoriale italiano, i progetti Faust di Anne Imhof alla Biennale di Venezia del 2017, un’opera totale nella quale si sovrapponevano piani formali e figurativi, dall’installazione alla musica, dalla pittura alla performance dal vivo, e Sun & Sea, l’opera-performance di Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė, presentata alla Biennale di Venezia del 2019. Esempi paradigmatici dell’urgenza di non limitarsi a un linguaggio specifico, aprendo non solo a qualunque altra categoria artistica, ma soprattutto a qualunque ambito del sapere o della ricerca umana, per analizzare e riflettere sulle diverse sfere dell’arte contemporanea, scompigliando qualunque settorialismo nel dibattito attuale.

Un tentativo di educare lo sguardo a concepire una visione panoramica della realtà, attraverso l’analisi dei confini e l’identificazione e l’approfondimento di convergenze e linee intersecanti nelle diverse pratiche della contemporaneità, intese come un potenziale rizomatico, che contiene in sé quei principi di connessione, eterogeneità e molteplicità di cui parlavano Deleuze e Guattari in Mille Plateaux.Un’urgenza che, seppur con esigenze, obiettivi e poetiche diverse, troviamo anche e soprattutto nel contesto italiano. Da questo punto di vista, la coerenza nella lettura dell’Italia attraverso le varie discipline artistiche evidenzia come l’immagine che ne risulta non possa limitarsi a una prospettiva unilaterale, bensì debba procedere ed essere ricomposta e approcciata soltanto guardando al complesso di tutte le arti, ognuna delle quali diventa portatrice di un colore dello spettro integrale che va osservato nella sua interezza per capire la complessa articolazione del fenomeno che ritrae.

Bisogna evidenziare che nel panorama italiano le produzioni che hanno avuto un maggior rilievo da questa prospettiva si siano concentrate in determinati festival, Drodesera, Xing, Santarcangelo, Romaeuropa, Short Theatre, il festival dei Due Mondi, oppure nelle grandi istituzioni museali. Realtà in grado di sostenere e di attivare collaborazioni internazionali per promuovere gli artisti italiani e, soprattutto, per creare scambi di prospettive, di inquietudini e di approcci, che si intrecciano senza soluzione di continuità con le indagini realizzate dai centri di produzione, sperimentazione e ricerca sparsi per tutto il territorio nazionale. Uno dei progetti più suggestivi degli ultimi anni è stata la retrospettiva, da poco conclusa, Poems I Will Never Release dedicata a Chiara Fumai, che si snodava attraversoun vocabolario di minaccia, rivolta, vandalismo, violenza e noia atto a innescare situazioni scomode e a dare forma a collage, ambienti e azioni per promuovere i suoi ideali di femminismo anarchico. Sicuramente una delle artiste italiane che più ha anticipato e poi proiettato questa lateralità dello sguardo è stata Marinella Senatore, che ha racchiuso anni di ricerca nel progetto Costruire comunità, realizzato nella Manica lunga al Castello di Rivoli nel 2013, con una sequenza costituita dalla scuola di ballo sperimentale School of Narrative Dance, laboratorio di scrittura creativa e set per produzioni cinematografiche e fotografiche. Nella stessa ottica di lavorare con e sulle comunità si inserisce tutta la produzione di Virgilio Sieni, attraverso il dialogo tra lo spazio e il luogo del corpo come rappresentazione di un cammino necessario per intravedere la città nuova, fondata sulla relazione intergenerazionale, l’accoglienza e l’ascolto dell’altro in una dimensione dettata dalla collaborazione tra gli individui, oppure il lavoro La vita nuova, a firma di Romeo Castellucci, presentato nel 2020 durante ArteFiera, incentrato sul rapporto fra comunità africane e occidentali e su come vivano in modo quasi parallelo sul nostro territorio. Insieme agli aspetti relazionali e allo studio del binomio identità/alterità – individuo/comunità, troviamo un filone fondamentale di ricerca su elementi della tragedia che entrano in soluzione di continuità col presente, diventando per noi specchi su cui rifletterci, ad esempio la Tragedia Endogonidia della Socìetas Raffaello Sanzio, che tenta di ricostruire il meccanismo originario della tragedia, o il processo appena iniziato dai Motus su Le troiane di Euripide con il loro Tutto brucia, lavoro ibrido tra danza, musica e teatro.

Ricerche dissonanti in cui la fluidità, le contaminazioni tra linguaggi diversi, lo sconfinamento da una materia all’altra, da una tecnica all’altra e da un’espressività all’altra, diventano l’epicentro di una galassia in cui si annullano gli autoreferenzialismi, l’egoismo, le autarchie e il potenziale restringimento del campo visivo. In questo percorso, l’Italia sembra emergere come un campo di cenere traumatizzato, somigliando troppo al resto d’Europa, al resto dell’Occidente. Un campo di cenere che, nel panorama italiano, esplode grazie alla consapevolezza di un presente sofferente che deve essere modificato, alterato, ricostruito, sanato. Una degenza che può finire solo attraverso la costituzione di una collettività in cui la diversità diventi un’arma politica e ideologica e in cui gli stranieri, gli esclusi, i marginali e gli invisibili possano contribuire alla conformazione di una realtà possibile che prevalga su qualunque mito assodato, su qualsiasi utopia rinviata, su ogni tradizione tramandata.

In quest’ottica, vediamo come la storia dell’arte venga attraversata da momenti, istanti o attimi in cui emerge l’urgenza e la necessità di guardare altrove, di non accontentarsi di rimanere intrappolati nel dominio di riferimento in cui si è stati incasellati. Lassi temporali in cui si abbattono la razionalità delle scelte, l’orientamento verso i mercati di riferimento, la fedeltà delle aspettative o il rispetto delle previsioni, per rappresentare o, addirittura, prevedere determinate rivoluzioni culturali. Da questo punto di vista, l’Italia ha sempre anticipato alcune dinamiche politiche, economiche e culturali che poi gran parte del resto del mondo ha adottato come cornice di riferimento. Resta da capire se anche in questo ambito e nella congiuntura attuale, il sistema dell’arte e gli artisti italiani sapranno riconoscere l’urgenza del presente, o se invece gli esempi che già sono in atto rimarranno solo elementi isolati all’interno di un contesto che continua a evitare di guardare altrove.