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Imparare a insegnare arte visiva
Viaggio nell’orizzonte di un sistema complesso

Cotonificio veneziano, una delle sedi dell’Università IUAV di Venezia

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Si può insegnare a fare arte? Molti dicono di no. E tra gli artisti italiani ve n’è la prova, se si considera quanti siano gli autodidatti del settore arti visive, anche soltanto in ambito italiano: da Alberto Burri a Giuseppe Capogrossi e Cesare Pietroiusti, tutti medici; da Stefano Arienti, botanico, al ‘senza titolo’ Maurizio Cattelan. Si può, in effetti, fare come quest’ultimo, che la laurea l’ha presa nel tempio del dissenso, la stessa facoltà di Sociologia di Trento in cui aveva studiato Renato Curcio, ma ad honorem e dopo una carriera attraversata senza complessi solitamente generati dall’assenza del ‘pezzo di carta’. Tuttavia, di solito non va così. Il sistema delle accademie, private o pubbliche, non solo esiste ma è, persino, pletorico, tale da dare la sensazione che gli studenti ci vadano a perdere anni, i docenti a prendere uno stipendio magro, e che il sistema dell’Alta Formazione (AFAM) sia stato creato, riformato, ampliato, per inventare bacini di lavoro pubblico e di clientele elettorali o personali.

Nel frattempo, date le contraddizioni che distinguono l’Italia, restiamo un Paese che potrebbe vivere d’arte e crede di potere formare migliaia di artisti all’anno tra studenti di accademie, conservatori, DAMS e istituti privati come lo IED, mentre non investe per qualche dirigente in più (ora sono due) assunto con concorso e per competenze nei quattordici musei pubblici di Venezia (MUVE), o per la posizione di direttore artistico al Palazzo Reale di Milano. La presidenza del MAXXI resta eminentemente politica, con conseguente cambio di curatori ogniqualvolta il carro dei vincitori cambia guida, e, in sostanza, nessun luogo italiano di esposizione e promozione dell’arte contemporanea risulta godere di un vero prestigio internazionale, a eccezione del caso, longevo e miracoloso, della Biennale di Venezia. Risultato: nel corso della fiera londinese Frieze, a parte alcuni maestri come Fontana, Manzoni, i poveristi o Salvo, che registrano encomiabili risultati in asta, nessun artista italiano viene degnamente rappresentato, tantomeno quelli under 40, di cui al massimo si è visto passare qualche breve film nella rassegna dell’ICA. Allora a cosa serve la nostra pletora di istituti di formazione?

Tutti conosciamo i grandi nomi nel sistema dell’arte italiano, da curatori come Francesco Bonami, Massimiliano Gioni, Cecilia Alemani, Vincenzo De Bellis, Lucia Pietroiusti, Andrea Lissoni, Pietro Rigolo, ad artisti come Maurizio Cattelan, Rosa Barba, Monica Bonvicini, Emilio Vavarella, tra gli altri. Sfogliandone i curricula, tuttavia, ci rendiamo conto che per ognuno di loro è possibile rintracciare un momento di distacco dall’Italia, conseguente alla scelta di andare all’estero. Se nel nostro Paese si forma qualche talento, dunque, il suo successo, se c’è, è di ritorno da una tappa straniera. Casi di artisti che riteniamo dei capisaldi, come Ettore Spalletti e Alberto Garutti, che non hanno mai deciso di andare via, dimostrano come chi resta debba spesso attendere di morire per avere i riconoscimenti dovuti.

Il problema è complesso, ma una parte di esso va senza dubbio rintracciata nello scarso riconoscimento del ruolo dell’arte contemporanea in Italia, una nazione oberata dalla necessità di assegnare fondi e opportunità all’arte antica. C’è poi l’insipienza di chi è incapace di avviare un dialogo con i musei d’arte del mondo, credendo che si possa vivere in un sistema chiuso: possibile, per esempio, che non si sappia scambiare un’opera di arte antica con un buon prestito di ‘contemporaneo’ proveniente dall’estero (per citare un caso realmente accaduto, anche se ormai vecchio di anni, una Venere di Tiziano con l’Olimpia di Manet)? Per concludere, c’è anche un dato storico che orienta i temi affrontati dai nostri artisti e, spesso, anche dai curatori: ben piazzata nelle classifiche delle economie mondiali, l’Italia vive poche urgenze. Protetta dal suo immenso risparmio privato, non è toccata da guerre o altre emergenze se non quella di una forte immigrazione; si crogiola nella propria denatalità, che permette ai più giovani di sopravvivere, salvo poi lasciarli senza la prospettiva di una pensione futura. Questi fattori inducono una riflessione soprattutto su temi non cutting-edge: la propria identità, la famiglia, talvolta lo stile. Tematiche come il clima, l’intelligenza artificiale, la stessa immigrazione, sono invece considerate di rado, con poca attenzione ai processi storici passati e che si preparano.

Dunque, è l’intero sistema dell’arte italiano che non sa interfacciarsi con gli altri Paesi e le loro questioni. L’ambito della formazione è solo un esempio o una conseguenza di un sospetto generalizzato per il settore. Ciò che si è capito altrove, cioè che l’arte contemporanea è un settore altamente professionalizzato in cui la mancanza di competenze si paga a ogni livello, non si è capito da noi, dove si assiste a cause di ex direttori intentate contro i musei una volta diretti e da cui sono stati licenziati per motivi futili, o ad assunzioni sulla base del parere di un sindaco senza un concorso che si possa chiamare tale, o a famelici desideri di lucrare sui guadagni di una fiera in agonia – mi è capitato a Bologna – da parte di una politica avida di finanziamenti e povera di visione. In più, gli artisti tendono a vivere in una bolla di benessere dentro cui non c’è abbastanza spazio per le questioni che toccherebbero davvero gli osservatori internazionali. Né gli ambiti formativi fanno molto per cambiare le cose, ancorati come sono a una visione eminentemente tecnica dell’attività artistica: eppure è chiaro che oggi non è possibile insegnare tecniche specifiche, dato il loro continuo mutare, la loro interscambiabilità, la possibilità, guadagnata nel corso di un secolo di avanguardie, di utilizzarle tutte e di inventarne di nuove piuttosto che ancorarsi a linguaggi passati. E con questo non intendo dire che pittura o scultura tradizionali siano ambiti da gettare, ma anzi da approfondire attraverso l’uso consapevole della fotografia, del cinema, delle stampanti 3D, della tecnologia in generale.  

Fatte queste premesse, è il momento di assumermi le mie responsabilità. Nel 2000 sono stata consulente per la nascita di un nuovo corso d’arti visive presso l’Università Iuav di Venezia, che, con mio stupore, non solo è nato l’anno successivo, ma è oggi al suo ventiduesimo anno di età. Il corso è stato visto con grande sospetto da parte della maggioranza dei docenti, che insegnano Architettura o Pianficazione urbanistica. ‘Noi’ dovevamo essere a costo zero, perché l’arte visiva non meritava di essere studiata all’Università. Bastavano le accademie, proprio quelle da cui i docenti di Architettura erano scappati negli anni Venti del secolo scorso per dare una dignità universitaria ai loro studi: non sempre chi vede la propria storia ripetersi si ricorda di averla vissuta. L’idea su cui abbiamo fondato il nuovo corso era che l’arte dovesse essere vista come un processo di pensiero che si riversa in un progetto e, quindi, a volte, in un manufatto, seguendo la nota massima di Lawrence Weiner che riassume in sé l’atteggiamento concettuale degli anni Settanta. Questa origine intendeva richiamarne una più lontana, quella del Bauhaus, basata sulla contaminazione fruttuosa di differenti campi artistici: dall’architettura al design, dal teatro alla danza, dal cinema al disegno fino alla ceramica o all’uso delle tecnologie computerizzate[1]. Certamente, però, tale prospettiva sull’arte visiva, intesa come ambito del sapere e come ricerca, indirizzata soprattutto a un pubblico non generalista ma in buona parte specializzato, non trova ancora facile cittadinanza, nemmeno tra chi frequenta discipline vicine. Paul Klee diceva che l’arte rende visibile l’invisibile. Noi possiamo integrare il suo aforisma sostenendo che, nei casi migliori, trasforma i punti di vista in oggetti, immagini, suoni, inventando metafore che sublimano e riassumono i processi di riflessione. Tutto ciò richiede competenze che sono in parte ancora da inventare e che, dunque, è difficile insegnare. Però si può trasmettere quest’attitudine, e una professionalità pignola nel perseguirla: «Fallisci ancora, fallisci meglio», diceva Samuel Beckett. Senza sentirsi schiavi del distanziarsi dalla cultura popolare o dal kitsch, come insegnarono, invece, Clement Greenberg, Adorno e Horkheimer, Guy Debord, nel loro modo assai snob di interpretare il comunismo. E senza essere ossessionati da ciò che Harold Rosenberg definiva «tradizione del nuovo», cioè dalla tentazione di inventare trovate per il gusto dell’inedito e per il culto dell’originalità[2].

Ritorniamo all’Università Iuav. I sospetti contro la piccola scuola nascente erano motivati dalla difficoltà nel decentralizzare l’architettura dalla scuola, quasi ci fosse un lutto da superare, che non era solo il lutto di un certo ateneo, ma anche e soprattutto quello relativo al ruolo dell’architettura in una società che ha dimostrato quanto questa sia bella ma anche, sovente, inutile, o anche impossibile, se propone case bifamiliari o, all’opposto, ecomostri creati da costruttori edili senza scrupoli ─ cosa che si sta ripresentando in modo del tutto evidente in questi ultimi anni. Allo stesso tempo veniva allo scoperto una componente che non era mai stata più chiara: l’antichissimo sospetto iconoclasta, per il quale chi si occupa di immagini risulta, in fondo, pericoloso e dunque meritevole di depotenziamento, e per cui le ‘figure’ non sono poi cose serie, perlomeno non come l’ingegneria o i trasporti. La lettura di Bruno Latour per cui, lungo tutta la Storia, ma particolarmente adesso, le immagini provocano un clash, uno scontro indicibile ma violento, risulta in questo senso fondamentale[3].

Nonostante le difficoltà, Il progetto di scuola d’arte dello Iuav non è solamente proseguito, ma ha anche trovato una risposta importante nei numeri degli studenti che tuttora aspirano a percorrere sia il triennio di base che il biennio magistrale. In più, quattro anni fa è nato un percorso dottorale unico in Italia, che permette non solo di approfondire testi riguardanti aspetti storici e teorici, ma anche di intraprendere un percorso practice based che è ancora un unicum in Italia. La richiesta di partecipazione al dottorato è impressionante, dal momento che le domande per i tre posti a disposizione (davvero pochi se si pensa che si rivolgono ai macrocampi della moda, del teatro e delle arti visive) sono oltre un quarto di quelle che pervengono alla scuola dottorale per tutte le categorie di borse, circa trenta[4]. Ciò significa che, se il campo di studi in Arti non è particolarmente amato o favorito dall’ateneo, lo è certamente da parte degli studenti che desiderano un terzo livello di studi e che, quindi, si suppone, credono in questi studi e nell’importanza generale della preparazione per chi si occupa di questi argomenti. A non percepirlo più come un campo eminentemente pratico, né tantomeno artigianale, sono appunto gli esponenti delle giovani generazioni, che sono anche le più esposte a una cultura artistica internazionale. La ‘generazione Erasmus’ ha capito, forse assai più di noi, quanto studiare conti, quanto l’arena del lavoro, in ogni campo, si sia fatta competitiva, e quanto il sistema dei dottorati, delle residenze artistiche e di qualsiasi altra modalità per prolungare gli studi sia un passo necessario per poter partecipare all’agone. E sia chiaro che non si parla soltanto di un inserimento efficace nel mondo mercantile o nello star system dell’arte, che pure non possiamo dimenticare, ma della capacità di trovare nuove vie per la propria affermazione: committenze diverse da quelle dei musei e dei collezionisti, autoproduzioni supportate da sponsorizzazioni non solamente orientate a lanciare e promuovere un oggetto, produzionionline di concezione autonoma, profili socialin grado di bucare il linguaggio stesso dei social, indagini ai limiti tra arte e scienza, i cui finanziatori operino all’interno del mondo scientifico o anche produttivo. In molti anni di lavoro, mi è capitato di assistere e cocurare collaborazioni con agricoltori, con teatri lirici, con industriali del tessile e del caffè, con associazioni di costruttori edili, mobilifici, ditte di orologi e molto altro, che non hanno sempre assunto il ruolo di sponsor ma che spesso hanno incarnato la funzione di committenti. Un’altra via è possibile, oltre a quella che conosciamo di più, e forse la documentafifteen vista nell’estate del 2022 ci ha insegnato se non altro questo: l’arte può essere fatta da gruppi, può nascere dal dialogo con committenti che non si identificano con venditori di opere né con collezionisti speculatori, può essere coltivata all’interno di collettivi che mescolano tradizione e innovazione. Negli anni del mio lavoro presso l’Università Iuav ho visto e coinvolto artisti di ogni genere e metodo, capaci di dialogare con l’ecosistema in modo più versatile rispetto a chi lo fa di mestiere, per esempio Gediminas e Nomeda Urbonas, Marjetica Potrč, Joan Jonas, Rene Gabri, Antoni Muntadas, Kimsooja; ho visto curatori immergersi in dinamiche di quartiere con qualche fallimento, ma anche molto entusiasmo e un’eredità che potremo calcolare solo tra qualche anno, in luoghi quali Singapore, Istanbul, Sharjah, come ci ha raccontato Ute Meta Bauer. Marta Kuzma, docente Iuav prima di diventare dean a Yale, ci ha portato un’idea nuova di padiglione, costituito solo da conferenze, cioè di idee sullo stato delle cose[5]. Ho visto una raccolta ricca, ma dagli criteri museografici antichi, rinnovarsi nel Museo Orientale di Torino anche grazie al rapporto con l’università nell’ambito arti visive, grazie al contributo del suo direttore Davide Quadrio. Ho potuto fondare una rivista, «OBOE Journal», che ha ottenuto lo status di rivista scientifica in due soli numeri. Ho visto una rosa di possibilità operative che non dovrebbero farci perdere la grinta. Ho visto una nuova conservazione avanzare, ma anche la forza del rinnovamento rimanere fortissima, purché ciò che si fa sia molto serio. Questo è stato, per me, imparare a insegnare arte visiva. Negli anni Ottanta, quando ho iniziato a occuparmi di arte, ci si poteva permettere il lusso di essere approssimativi. Ora, soprattutto in Italia, la credibilità richiede un impegno professionale che diventa un atto civile, una protesta e una proposta politica. Non tutto luccica e non tutto è oro, ma credo che questo genere di resistenza, basata su un impegno testardo e sull’emarginazione del pressappochismo, aiuterà le generazioni a venire.


[1] Per capire la struttura del corso si veda: C. Vecchiarelli, A. Vettese, Visual Arts at Iuav: 2001-2011, Mousse Publishing, 2011; M. Ambrozic, A. Vettese (a cura di), Art as a Thinking Process, Sternberg, 2013.
[2] Per una letteratura su ciò che è stato definito l’Educational Turn, si consulti il lungo lavoro fatto dai gruppi europei ELIA (ancora attivo) e SHARE; si consultino inoltre S.H. Madoff (a cura di), Art Schools (Propositions for the 21s Century), MIT PRESS, 2009; J. Kaila, The artist as a Producer of Knowledge, in «The Artist’s Knowledge 2, Research at the Finnish Academy of Fine Arts», Helsinki 2008; M.J. Jacob, J. Baas, Learning Mind – Experience into Art, University of California Press, 2009; P. O Neal, M. Wilson (a cura di), Curating the Educational Turn,Open Editions / De Appel, 2009; F. Allen (a cura di), Education, MIT-Whitechapel, 2011.
[3] B. Latour, P. Weibl, Iconoclash – Beyond the Image Wars in Science, Religion and Art, MIT Press, 2002.
[4] Per una riflessione sulla necessità di avere percorsi dottorali anche per le arti visive si veda: B. Buckley, J. Conomos (a cura di), Rethinking the Contemporary Art School, The Artist and the Ph.D. and the Academy, the Press of the Nova Scotia College of Art and Design, 2009.
[5] Le conferenze sono raccolte in: M. Kuzma, P. Lafuente, P. Osborne, The State of Things, Padiglione Norvegia, Biennale 2011, OCA Oslo, Università Iuav, Mousse Publishing, 2013.