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Spesso, i confini tra arte e queerness[1] diventano labili: l’artificio artistico ha la capacità d’influenzare il nostro pensiero e la nostra soggettività attraverso un’estetica-politica queer, tanto quanto le nostre identità, saperi e piaceri queer sono già arte. Il modo in cui si ama o si pratica sesso, può essere considerato arte (per esempio il kink o BDSM). Anche un oggetto artistico dai colori sgargianti e dalle forme stravaganti si può prestare a una codificazione queer agli occhi di chi lo sa vedere come tale (come nel caso dell’estetica camp)[2]. D’altronde, Oscar Wilde – icona queer senza tempo – non aveva detto che «O si è un’opera d’arte, o la si indossa»[3]?
Avendo vissuto almeno quindici anni nell’universo artistico, relazionale e politico queer, posso dire di essere arrivata alla conclusione che le nostre identità queer – anche quando non coinvolte professionalmente nell’ambito artistico-culturale – sono intrinsecamente ‘artistiche’, poiché plasmate dal potere della fabulazione. L’ormai citatissima Judith Butler, già nel 1988, parlava del potenziale di soggettivazione queer attraverso l’arte performativa, aprendo un parallelo esplicito tra la costituzione del genere e il teatro[4]. Butler però non si riferiva semplicemente alla performatività di genere (in quanto caratteristica psicosomatica), ma anche alla performatività del sesso (ovvero degli attributi biologici di un individuo) che, una volta dichiarato ‘maschio’ o ‘femmina’ alla nascita, sarà poi ripetutamente interpellato dal mondo esterno, che lo costituirà in quanto tale[5]. In una prospettiva queer facilitata dalla potenza artistica, pertanto, ripetendo certi atti e parole all’estremo, possiamo non solo costruire infiniti generi e modi di praticare la sessualità e le relazioni, ma anche risignificare la nostra carne.
Nell’installazione performativa Transgenesis (2021) di Agnes Questionmark, ad esempio, la sua identità straripa nell’immaginarsi specie ibrida e non-umana. Elaborando il proprio divenire transgender attraverso la lente del post-umano[6], rigetta un divenire antropocentrico, facendosi rinascere in quanto creatura acquatica, viscosa, polimorfa e tentacolare. Il suo corpo gelatinoso riempie una piscina intera, emergendo dal bordo con una gigante presenza e un canto ipnotizzante. In questo rituale di reincarnazione della durata di un mese, l’artista non è sola: embrioni pulsanti e luminosi attendono la loro nascita, mentre una squadra di creature palmate e danzanti occupano uno spazio abitato da sculture fluorescenti, simili a coralli e nudibranchi.
La queerness è in continuo movimento, tumultuoso ed eccitante. Come l’acqua, si può plasmare in finzioni-realtà mai immaginate, a dispetto di un mondo patriarcale e colonizzatore che si autoafferma attraverso la negazione di soggetti migranti, di colore, trans, disabili, femminili, sex-positive, queer. Allo stesso modo, l’arte queer è Live art – Arte viva. È viva perché incarnata, ibrida, affettiva, e senza genere prestabilito – né nel senso artistico né corporeo. Fotografia, danza, teatro, archivio, new media, installazione e molto altro, la Live art è «una strategia culturale che fa spazio a processi sperimentali, pratiche esperienziali, corpi e identità che verrebbero altrimenti esclusi dai contesti tradizionali»[7]; è presente ovunque ci sia interazione con il pubblico. L’arte queer, altrettanto indefinibile, è essa stessa Arte viva – Live art, perché trabocca i propri confini, riempiendo le categorie, ingrossandole, esagerandole, eccedendole – o eliminandole del tutto.
Che cosa s’intende per queer? Succintamente, ispirata da Gayatri Gopinath, in questo testo intendo la queerness un orientamento sessuale e di genere non (etero)normativo; ma anche modalità di desiderio e lettura tra oggetti e soggetti non strettamente queer (come per definizione precedente), la cui relazione o associazione permette l’emergere di storie alternative e divergenti[8].
Gioia Maini aka Charlie G Fennel, nel lavoro Vodka e Tena Lady (2018), parla del rapporto con la nonna novantenne, con la quale ha vissuto a intermittenza dopo la morte della madre, avvenuta nel 2010. Il progetto, che si sviluppa in ambito domestico, mette al centro l’anziana che (spesso fornita di accessori colorati quali occhiali o bandane) racconta aneddoti e storie più o meno oscene alla telecamera, mentre la nipote (che si identifica come persona non binaria) le fa ‘da spalla’. La coppia perciò propone, attraverso un processo di ‘disidentificazione’[9] dalla cultura mainstream dei programmi TV italiani, una versione intergenerazionale matriarcale, dal gusto ‘post-porno’, d’intrattenimento mediatico. Prima di essere esposto in mostra, è stato condiviso sul profilo Instagram @vodka_and_tenalady, fino alla morte della nonna nel 2016. Questo archivio affettivo di gesti, immagini, storie e azioni quotidiane, rompe con le aspettative morali di decoro e serietà ritenute necessarie in situazioni di cura, malattia e morte – specialmente nel contesto cattolico-tradizionale italiano – producendo un sentimento dissacrante e condiviso di gioia queer senza età.
La queerness non ha, infatti, età né linearità storica. Conseguentemente, ritengo non si possa storicizzare l’arte queer senza incorrere in una spiegazione parziale di questa storia – prevalentemente bianca e dai canoni estetico-politici euro-americani. Di fatto, la queerness è sempre esistita (sia attraverso lo spazio che il tempo) – soprattutto laddove l’uniformità di pensiero di alcune persone abbia oppresso la diversità di desiderio ed espressione di altre.
Ambrita Sunshine, nata da madre italiana e padre ivoriano, risignifica la cultura sex-positive, BDSM e undergroundqueer attraverso tecniche ritualistiche e di ballo tradizionale, studiate in Costa d’Avorio da circa dieci anni. Con rituali animisti appartenenti alla religione africana tradizionale, riattiva una trascendenza erotica queer ancestrale in workshop e performance come Acid Abla (2022). Pertanto l’artista, non binaria, afro-diasporica, indaga le fratture iscritte sui corpi colonizzati, razzializzati e marginalizzati, per ritrovare uno spazio di appartenenza nella trance multisensoriale.
La queerness, citando José Esteban Muñoz, è un orizzonte o un’utopia verso la quale tendiamo: «Non siamo mai state queer, eppure la queerness esiste per noi come un ideale che può essere distillato dal passato per immaginare il futuro»[10]. La queerness diventa quindi un luogo verso il quale fuggire perpetuamente. È speranza e desiderio di creare nuove realtà.
Ad esempio per Chiara Bersani, che nel suo lavoro sovverte le rappresentazioni attribuite a corpi che, come il suo, non sono percepiti normativamente abili o conformi a stereotipi estetici (e reiterati nel mondo delle arti). In Gentle Unicorn (2018) Bersani, alta 98 centimetri, si auto-proclama unicorno – animale-simbolo queer per i suoi poteri magici, estetica camp ed esistenza mitica. Per mezzo della sua figura leggendaria, l’artista si riappropria dei vari significati che quest’animale, tanto quanto il corpo non conforme, ha subito nel corso della Storia a seconda dei contesti: fantastico, prodigio, inesistente… Il suo corpo performante silenzioso si fa portavoce di una politica crip queer[11] con ordinaria presenza: il set è minimo, quanto le luci, il costume, il trucco e i movimenti misurati. Richiedendo la nostra attenzione, Bersani si fa arte e mitologia incarnata.
Ma i corpi (o ‘le corpe’, usando un linguaggio transfemminista), nella loro ricerca identitaria queer possono anche decidere di dileguarsi.
In Liminal Bodies: Practicing Dis-Appearance (2019), Monstera Deliciosa si copre con un mantello di emergenza metallico, diventando uno specchio nel quale la società patriarcale occidentale «possa osservare la subdola e persistente violenza biopolitica con cui colpisce ogni fenomeno femme, o ‘diverso’»[12]. L’artista (non binaria e trans) cerca così di proteggersi dagli sguardi e dal giudizio altrui con una coperta luccicante, trovando riparo e amore in un’evanescenza aliena e simbiotica. Non più nudo, esibito, sessualizzato o oggettificato, il suo corpo si mimetizza con la superficie specchiante sulla roccia dorata, o nell’acqua dai riflessi argentati. Attraverso movimenti metamorfici e riflettenti, propone a chi la vede un’identità queer che non è più solo carne, ma ambiente e luce espansa.
In questo breve contributo ho portato esempi forse meno conosciuti di arte queer, prodotta da artiste italiane non binarie, gender-fluid, trans o donna, nate negli anni Ottanta e Novanta. I loro lavori offrono la possibilità di immaginare la queerness al di là dei confini identitari nei quali è stata paradossalmente incapsulata – sia dall’esterno sia all’interno della sua comunità. Allo stesso modo, vorrei concludere riflettendo sull’identità italiana delle artiste in questione, osservando che, in una prospettiva queer, l’appartenenza nazionale è di per sé un’identità in movimento e relazionale: essa è sì specifica rispetto alla lingua e al contesto geo-politico in cui i suoi soggetti queer si sono formati, ma, contemporaneamente, si costituisce trans-nazionalmente con le lotte politiche e le pratiche estetiche queer condivise in tutto il mondo[13].
[1] In questo testo, uso queer come aggettivo, queerness come nome. Questa mia scelta femminista-queer dà precedenza al genere femminile, che si perderebbe con l’aggettivo sostantivato ‘il queer’. Similmente, i plurali indefiniti saranno al femminile: per questo utilizzo il femminile universale ‘le artiste’ anche nel caso in cui si identifichino nel non binario. Tutte le traduzioni dall’inglese sono mie.
[2] S. Sontag, Notes on “Camp”, in Against Interpretation, Noonday Press, 1966, pp. 275-292.
[3] «One should either be a work of art, or wear a work of art». O. Wilde, Phrases and Philosophies for the Use of the Young, L. Smithers, 1906. Disponibile su: https://archive.org/details/phrasesphilosoph00wild.
[4] J. Butler, Performative Acts and Gender Constitution. An Essay in Phenomenology and Feminist Theory, «Theatre Journal», vol. 40, n. 4, 1988, pp. 519-531.
[5] Id., Bodies that Matter. On the Discursive Limits of “sex”, Routledge, 1993.
[6] R. Braidotti, The Posthuman, Polity, 2013.
[7] «Live Art is a cultural strategy to make space for experimental processes, experiential practices, and the bodies and identities that might otherwise be excluded from traditional contexts». Dal sito dell’organizzazione artistica Live Art Development Agency, What is Live Art?, https://www.thisisliveart.co.uk/about-lada/what-is-live-art/.
[8] G. Gopinath, Unruly Visions. The Aesthetic Practices of Queer Diaspora, Duke University Press, 2018, p. 14.
[9] «La disidentificazione è una performance ermeneutica di decodifica della cultura alta o popolare dalla prospettiva di un soggetto minoritario che si trova escluso in tale gerarchia rappresentativa». J.E. Muñoz, Disidentifications. Queers of Color and the Performance of Politics, University of Minnesota Press, 1999, p. 25.
[10] «We have never been queer, yet queerness exists for us as an ideality that can be distilled from the past and used to imagine a future». J.E. Muñoz, Cruising Utopia. The Then and There of Queer Futurity, New York University Press, 2009, p. 1.
[11] La teoria crip queer si basa sulla relazione tra eterosessualità obbligatoria e abilismo. Vedi: R. McRuer, Crip Theory. Cultural Signs of Queerness and Disability, New York University Press, 2006, pp. 1-2.
[12] Conversazione con l’artista, 6 ottobre 2022.
[13] Ringrazio Laura Leuzzi per aver visionato e portato suggerimenti alla bozza finale di questo testo.