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A Generation That Didn’t Agree?
Una testimonianza attraverso un decennio

Gian Maria Tosatti, La costruzione di una cosmologia, 2013, grafite su carta, 14,8 x 21 cm

Questo articolo è disponibile anche in: English

Anno 2017.

Nuova York era caduta.
Pestilenza e paura dilagavano in America, minacciando tutto il mondo occidentale.
Questo era quanto accadeva nel mio primo lungometraggio, NYsferatu – Symphony of a Century (2017), che avevo deciso di introdurre con la seguente, breve citazione da Sad Statue (2005) dei System Of A Down:

You and me
We’ll all go down in history
With a sad Statue of Liberty
And a generation that didn’t agree

La ‘generazione che non si mise mai d’accordo’ di cui mi si chiede di parlare in questo articolo, è chiaramente la nostra generazione artistica, che possiamo individuare, grosso modo, nei nati tra fine anni Sessanta e inizio anni Ottanta, diciamo dal 1967, che ha visto i natali di Arcangelo Sassolino, fino al 1980 quando, a Roma, nasce Gian Maria Tosatti.

Curiosamente questo arco temporale corrisponde a quello della nascita, sviluppo, apice e (parziale e momentaneo) declino di quello che è stato il maggior movimento artistico italiano del secondo Novecento: l’arte povera.

Appunti per una guerriglia, il leggendario testo di Germano Celant, viene difatti pubblicato sul numero di «Flash Art» di novembre-dicembre 1967, mentre esattamente dodici anni dopo, sulla stessa rivista, nel numero di novembre 1979, Achille Bonito Oliva pubblicava La Transavanguardia italiana, dedicato a quel movimento che per pochi, brillanti anni, seppe prendersi l’attenzione di tutto il mondo (artistico e non), riportando in auge la pittura, coadiuvato dai più duraturi Neuen Wilden (I nuovi selvaggi) tedeschi.

Ma torniamo a noi e alla nostra generazione che non andò mai d’accordo, e che si porta dietro – anzi, sulle spalle ─ l’arte povera come una sorta di padre putativo/patrigno, con tutte le sue contraddizioni interne, da Boetti a Fabro, da Kounellis a Merz e Penone. Da figli di contraddizioni e diversità, non potevamo che essere noi stessi contraddittori e diversi l’uno dall’altro, con ricerche che prendono piede da posizioni spesso antitetiche, quasi nemiche e antipatiche l’una all’altra. Certo, di tanto in tanto, tra tutti noi, compaiono dei punti di tangenza. E proprio facendo leva su quei punti, all’inizio degli anni Dieci, ci fu persino un tentativo di farci andare tutti d’accordo. Quello che segue ne è il racconto, più o meno per come me lo ricordo ma, in fondo, non è poi così importante quanto realmente succede, piuttosto cosa ci ricordiamo di un dato evento e, soprattutto, come lo sappiamo raccontare.

Penso di aver conosciuto la gran parte degli artisti italiani della mia generazione all’estero: Cattaneo e Francesconi li conobbi a Ginevra a inizio secolo; Tosatti, Andreotta Calò, Senatore, Sassolino, Stampone, Picco, Balliano, Tweedy, Rabbia, Simeti, Vezzoli etc., sono tutti frutto di incontri newyorkesi, tra Manhattan e Brooklyn. D’altronde all’estero è più semplice ritrovarsi tra simili (seppur diversi!) e la parlata italiana fuori confine è pur sempre una piacevole concessione alla pigrizia.

Tosatti l’avevo conosciuto così, a fine 2011, mentre a un opening da Gavin Brown mi riportava un vecchio materasso gonfiabile usato e, ahimè ormai croccante, che avevo prestato in precedenza ad Andrea Galvani. Mi serviva per farci dormire gli assistenti in studio, all’epoca non avevamo più neanche i soldi per permetterci un ostello.

Gian Maria mi costrinse, quindi, come sua abitudine, ad andare sino a Governors Island a vedere la sua opera, Apt #102. Non ci capii un cazzo ma feci finta di apprezzarla. D’altronde era un linguaggio nuovo e quando qualcuno fa qualcosa di nuovo non è detto che debba per forza essere anche bello o riuscito. Era nuovo, però. E così mi interessai a quello strano artista con la barba, dato che la barba ce l’avevo anche io, ma la mia era barba incolta da ultras in trasferta da una vita, la sua da prete sessantottino.

Giamma ce l’aveva con tutti, col sistema dell’arte, coi critici, coi galleristi, coi curatori, con gli artisti. A ben guardare non è cambiato molto neanche oggi, ce l’ha con tutti anche ora, anzi ora tutti ce l’hanno lui, a suo dire, ma non è poi del tutto vero. Io, ad esempio, non ce l’ho con lui, assolutamente, e anzi gli sono grato per quel pomeriggio di inizio 2013 quando, sotto la pioggia, trovammo entrambi riparo al tepore di un vecchio pub di Chelsea. Ci si lamentava delle gallerie, come sempre (è lo sport preferito dagli artisti), lui se ne venne fuori con quest’idea di aprire una galleria gestita esclusivamente da artisti per gli artisti. Gli dissi che per me era una gran puttanata, ma poi nel parlare dei suoi trascorsi con Reload (2011) a Roma e nel ricordarci di quando, con Francesconi e altri, l’avevo chiamato a contribuire al mio Manabile per giovani artisti[1], pochi mesi prima, venimmo fuori con l’idea di partire proprio dagli artisti, la materia prima dell’arte, per provare – ripeto PROVARE – a tirare le fila di un discorso artistico e italico che, orfano di critica, stentava a prendere forma e decollare. Gli dissi che doveva organizzare tutto lui perchè io tra mostre e partite dell’Atalanta non ne avevo il tempo. Si inventò il titolo, La costruzione di una cosmologiavol. 1, e il formato: una serie di incontri tra artisti della nostra generazione e artisti di quella precedente. All’epoca «Artribune»[2] ci diede molto spazio, online, e se ‘googlate’ troverete tutti i cinque video dei dibattiti di quella prima esperienza, tenutisi alla Fondazione Morra di Napoli: Giuseppe Stampone con Alfredo Pirri, io con Giuseppe Gallo, Alessandro Bulgini con Gianfranco Baruchello, Andrea Nacciarriti con Stefano Arienti e Gian Maria Tosatti con Jannis Kounellis.

Del mio incontro napoletano con Gallo ricordo bene solo che stavo per essere tirato sotto da un motorino contromano guidato da due novenni senza casco mentre, finita la chiacchierata, cercavamo di andarci a mangiare una pizza, e che Gallo si incazzava sempre appena cercavo di parlare e mi diceva che «l’artista è un bastardo, l’arte è bastarda e fa quel cazzo che gli pare». Vero, dopotutto, come direbbe Cassano: chapeau!

E così, date le premesse, il passaggio da incontri a veri e propri scontri fu oltremodo breve.

Nell’estate di quell’anno, il 2013, provammo qualcosa che avevo visto fare solo in accademia da Stefano Arienti, che ogni tanto in classe organizzava il Microscopio, un confronto diretto tra noi studenti che, di volta in volta, mostravamo i nostri lavori esponendoli ai commenti altrui. Orbene, ci provammo anche noi, a confrontare reciprocamente i nostri lavori, ma senza un professore a moderarci. Cinque artisti in conversazione al Cantiere di Ascoli Piceno: io, Tosatti, Stampone, Bulgini e Nacciarriti. Io arrivai sudato fradicio – non mi andava l’aria condizionata e Ascoli è sei ore da Bergamo – con la canottiera e i pantaloncini a pinocchietto, subito mi presero tutti in giro perché sembravo un truzzo delle valli orobiche. ‘Cominciamo bene’, pensai. A ciascuno di noi era stato dato il compito di portare, oltre al nostro, due o tre portfolio o una documentazione riguardante altri artisti che stimavamo. Io avevo scelto Alice Cattaneo, Luca Francesconi, Nico Vascellari, Gabriele Picco e Pietro Ruffo. Giamma aveva portato Eugenio Tibaldi e non ricordo chi altri; Stampone, Marinella Senatore, Andrea Nacciarriti e, forse, Davide Tranchina? Non ricordo più molto, senonché a un certo punto cominciamo a mostrare i nostri portfolio, tutti diffidenti uno dell’altro e, wow, ci andammo giù duro, come in Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese.

Tutti i lavori vennero criticati aspramente, tutti tranne il mio e questo mi ha sempre stupito. Ogni tanto ci ripenso e mi dico che forse ho questo strano potere di calmare gli animi e trovare sempre un compromesso, un contatto tra gli opposti, e magari questa dote l’ha pure il mio lavoro che non fece incazzare nessuno, anzi placò i bollenti spiriti a fine giornata. Il giorno dopo ci scannammo l’un l’altro guardando il lavoro degli artisti che avevamo scelto: solo pochi sopravvissero alla cernita e anche in quel caso ci fu chi pose veti, urlò e se ne andò sbattendo la porta. Insomma, a forza di litigare, a fine esperienza, ci scoprimmo amici[3].

Sapete, è qualcosa di insolito, per noi artisti, confrontarci apertamente: siamo artisti, quindi, siamo – chi in un modo chi nell’altro – delle troie immensamente innamorate di noi stesse e difficilmente accettiamo critiche al nostro fare. Ognuno tende per natura a proteggere il suo lavoro e criticare l’altro, in un gioco di mors tua vita mea che, come ben sappiamo, si è dimostrato letale per l’arte italiana odierna. Quella residenza ascolana rimane, nei miei ricordi, uno dei più alti momenti di unità e amicizia tra artisti che io abbia mai conosciuto e sono sicuro lo sia stato anche per i miei compagni, sebbene alcuni di loro, oggi, non si parlino più.

A questo primo volume di Cosmologia ne seguì un secondo, a cavallo tra il 2013 e il 2014, a cura di Giuseppe Stampone presso l’American Academy e il MAAM di Roma, tra noi cinque – zoccolo duro dell’iniziativa – e alcuni degli artisti i cui portfolio erano sopravvissuti al massacro ascolano. L’obiettivo era quello di cominciare a creare una breve e articolata storia dell’arte italiana del XXI secolo attraverso le esperienze condivise dalle varie coppie di artisti: Stampone e Senatore, io e Cattaneo, Tosatti e Sassolino, Bulgini e Frigo, Nacciarriti e Francesconi. Stavamo provando ad allargare il giro e le cose sembravano funzionare, questo modus operandi aveva innescato un meccanismo virtuoso, in cui noi artisti ricominciavamo a parlare proprio di arte, qualcosa che avevo visto fare, all’epoca, solo a New York, dove il confronto tra artisti e artisti, artisti e curatori è all’ordine del giorno e, come la città, duro e a volte violento[4].

Io e Alice Cattaneo, per il nostro incontro, ci eravamo riavvicinati parecchio dopo tanti anni, raccontando e raccontandoci e scoprendo, l’uno dell’altro, le passioni e le preferenze e referenze artistiche.

Se da un lato, per Alice erano state fondamentali le ricerche di Mario Airò e di Amedeo Martegani, i video di Alessandra Spranzi, le sculture di Gianni Caravaggio e di Francesco Gennari, i disegni di Stefano Arienti, dall’altro io pensavo alla Cella #7 di Kauffmann, ai pongo e ai puzzle di Arienti (che alla fine è un po’ il papà di tanti di noi), a Caligola di Pessoli, ad Abbassare le montagne di Francesconi, ai colori di Cingolani, allo straordinario The Column di Adrian Paci e a Nico Vascellari, che lanciava la batteria giù da una montagna o, ancora, a Federico Pietrella che portava la notte stellata nei capannoni di Assab One a inizio secolo. In quella serata romana scoprimmo, tra l’altro, nostro malgrado, di quanti, dei nomi che citavamo, fossero del Nord e di come a Roma risultassero poco conosciuti e, al contempo, di quanti nomi di artisti romani citati dal pubblico durante il dibattito suonassero pressoché nuovi alle nostre orecchie. Insomma, Milano-Roma come New York-Los Angeles: mondi diametralmente opposti. Mentre Marinella e Giuseppe, nel loro incontro, erano stati concordi nel non individuare, sino a quel punto, una via precisa e ben chiara dell’arte italiana del XXI secolo, via che forse, a dieci anni da allora, possiamo cominciare a intravedere delinearsi tra le pieghe dell’arte partecipativa e performativa, tra l’interesse per la storia – recente o meno – e una pratica diffusa del disegno e delle sue mille possibilità, declinate nel racconto sia intimo sai sociale.

Degli altri episodi non ho memoria, dato che non ero presente e non vennero pubblicati video per l’occasione. Ma qualcuno mi raccontò che erano stati più i punti di disaccordo che quelli in comune, e che in alcuni incontri si era sfiorato il litigio vero e proprio: d’altronde siamo sempre tutti figli di Boccioni e dei suoi pugni…

Qualcosa, quindi, cominciava già a sgretolarsi e quando, nel luglio del 2014, ci ritrovammo in sette a Roma per una seconda mini-residenza, finì tutto in merda.

Litigammo tutti (tranne me, io non mi incazzo mai per le cose non serie, ovvero tutte quelle che non riguardano l’Atalanta) e tra un vaffanculo e l’altro il teatro Valle occupato ci vide salutare per sempre la costruzione di quella Cosmologia che stava davvero prendendo forma tra noi.

Copio dal sito cosmologia.eu: «La costruzione di una cosmologia è la rifondazione di una idea coerente dell’arte italiana che vuole sostituire l’analogia di un cosmo fatto di singole stelle con l’immagine di una cosmologia leggibile in cui sono scritte l’identità attuale di un paese e della sua cultura»[5]. Ecco, forse questo concetto era troppo. Troppo per stelle lontane anni luce fra loro, che ricevevano certo la reciproca luminescenza ma in tempi sempre sfasati e diluiti. Protagonismo, paura di essere criticati, di essere visti come una sorta di setta o di apparire troppo vicini ad altri, antipatie, manie, puzze sotto al naso, tanti, troppi impegni. Questi e altri i motivi della fine di quell’esperienza che, io e Tosatti, provammo poi a portare avanti subito dopo con The Brooklyn Circle in cui, periodicamente, con Davide Balliano e Ian Tweedy, ci si trovava nei reciproci studi per parlare del proprio lavoro. Ma, come si sa, a New York nulla è fermo, tutto corre tutto cambia e anche quell’abitudine durò poco, pur ottenendo, infine, di rinsaldare la nostra amicizia.

Amicizia, appunto. In una recente intervista per Radio Ca’ Foscari mi è stato chiesto da cosa fosse nato, nel 2021, The Drawing Hall, il progetto che io, Marco Marcassoli e Walter Carrera abbiamo dedicato al disegno italiano. «Dall’amicizia tra noi tre (io, Marco e Walter) e dall’amicizia tra noi artisti», risposi. Artisti di fama nazionale e internazionale che accettano di mettersi in gioco e di venire a esporre in un capannone a Grassobbio, alla periferia di Bergamo. Per amicizia e fiducia reciproca.

La lezione di Cosmologia non è andata persa. Quegli incontri/scontri hanno insegnato a molti di noi che, davvero, l’unione fa la forza, persino nel Paese dei mille Comuni e, pian piano, tra le solite difficoltà di essere sempre in giro per il mondo, dei progetti infiniti, dei soldi che non sono mai abbastanza, trovo che ci sia, in fondo, un grande rispetto reciproco per il lavoro di ognuno di noi.

Oggi, The Drawing Hall accoglie i progetti sul disegno di molti di quegli artisti che avevamo inizialmente coinvolto per Cosmologia e che comprendono al volo la natura autentica di questa iniziativa, rivolta esclusivamente alla riscoperta di una pratica condivisa da tutti ma, in Italia, inspiegabilmente relegata a un palcoscenico di serie B. Oggi, Tosatti, con la ‘sua’ Quadriennale, cerca di riprendere il filo di quel discorso lasciato cadere in quella calda estate di nove anni fa, allargandolo, tra l’altro, alle generazioni di artisti più giovani, di cui io stesso ammetto di non sapere quasi nulla, quando, invece, il dialogo tra artisti di età diverse è fondamentale per la vitalità dell’arte stessa.

Per concludere, quindi, non posso che citare la Lesson 24 contenuta nel celebre articolo How To Be An Artist di Jerry Saltz ─ che quando mi incontra qui a New York mi copre sempre di insulti (!!!): «Stay up late every night with other artists around your age. Show up. Go to openings, events, parties, wherever there are more than two of your kind. Artists must commune with their own kind all the time. There are no exceptions to this rule, even if you live “out in the woods.” Preferably commune in person, but online is more than fine. It doesn’t matter where you live: big city, small city, little town. You will fight and love together; you will develop new languages together and give each other comfort, conversation, and the strength to carry on. This is how you will change the world ─ and your art. To protect yourselves, form small gangs. Protect one another no matter what; this gang will allow all of you to go out into and take over parts of the world. Argue, sleep with, love, hate, get sick of your fellow gang members. Whatever happens, you need one another — for now. Protect the weakest artist in your gang, because there are people in the gang who think you’re the weak one»[6].


[1] Manabile per giovani artisti, a cura di C. Benigni e A. Mastrovito, Libri Aparte, 2013.
[2] https://www.artribune.com/?s=la+costruzione+di+una+cosmologia.
[3] In quell’occasione ebbi modo di conoscere, oltre a Bulgini e Nacciarriti, una donna gentilissima dal curioso ciuffo blu, letteralmente amabile e dalla grande generosità e onestà intellettuale, Adele Cappelli. Una carissima amica che, purtroppo, ci ha lasciati nel 2021, e di cui conservo un dolcissimo ricordo.
[4] Nel gennaio del 2008 mi trovavo a New York grazie al New York Prize. Io e Silvia Vendramel venimmo invitati, una sera, da uno studente del corso di master in Fine Arts ad assistere a una riunione notturna tra giovani artisti e curatori. Arrivammo in questo edificio semiabbandonato sotto un cavalcavia sulla 116esima strada, ci dirigemmo verso lo scantinato dove con nostra grande sorpresa trovammo un nutrito gruppo di giovani – capeggiato proprio dal ragazzo che ci aveva invitato, che poi non era altro che Leigh Ledare, oggi rinomato artista – che ascoltava attentamente la lezione di un curatore semipelato sulla quarantina. Finita la serie di slides, i giovani artisti, all’unisono, cominciarono ad attaccare il curatore con domande su quanto aveva appena mostrato, mettendolo in evidente difficoltà. All’ennesima domanda incalzante a cui non seppe dare risposta né spiegazione, il tizio se ne andò via piangendo, e sotto un altro. Mamma mia!
[5] http://www.cosmologia.eu/project.html.
[6] J. Saltz, How to Be An ArtistLesson 24, “Vulture Magazine” 27 novembre 2018. https://www.vulture.com/2018/11/jerry-saltz-how-to-be-an-artist.html; Come diventare un artista, Johan&Levy, 2020