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Fare le cose assieme
Bologna, tra comunità e spazi di libertà

And We Thought III di Ai Lai, Roberto Fassone. LZ, a cura di Sineglossa, veduta della mostra presso Alchemilla, Bologna, 2023, foto Rolando Paolo Guerzoni

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La città di Bologna è un organismo complesso, cresciuto intorno a gruppi di persone che a partire dal gesto minimo dello stare insieme e del condividere hanno spontaneamente dato vita a esperienze seminali.

Le comunità artistiche, negli ultimi decenni, hanno contribuito a costruire una scena culturale eterogenea, spesso pioneristica che, tra continuità e fratture, trova nella costruzione incessante di reti, nelle sperimentazioni su spazi e linguaggi e nella rottura dei confini tra le discipline, i propri elementi fondanti e condivisi.

Leggere una situazione contemporanea, prima di tutto per l’assenza di una distanza storica che permetta di trovare le giuste prospettive, non è mai semplice. Per cercare di mettere a fuoco l’attuale panorama all’interno della città emiliana possiamo provare a ripartire da alcuni prodromi, individuando appunto elementi comuni, modelli che hanno formato e influenzato le attuali generazioni.

A Bologna nel 1994, in via Fioravanti 14, nasce il Link Project – dopo lo sgombro dell’Isola nel Kantiere, luogo iconico e seminale per la scena hip hop – un centro di produzione culturale[1] che lancia l’arte contemporanea tra sale dedicate alla musica e al performativo, tra reading e proiezioni cinematografiche, tra un bar e una libreria. All’interno di questo clima di sperimentazione è un artista a ricoprire il ruolo di curatore: Luca Vitone, che viene invitato dall’amico Daniele Gasparinetti[2] (conosciuto dieci anni prima nelle aule del DAMS arte e compagno di esperienze comuni e militanza culturale) a pensare Incursioni[3], una rassegna annuale dedicata agli artisti delle ultime generazioni. Questi ultimi erano invitati a presentare lavori, azioni, gesti e idee in tutti gli spazi e in contemporanea con le altre iniziative, e a riflettere sull’arte intesa «come relazione e confronto su ciò che l’arte è attraverso il rapporto con la storia, col sociale in cui opera, l’ambiente e il luogo in cui si espone»[4]. Incursioni vede quattro edizioni, dal 1996 fino al 1999, con circa quaranta artisti invitati, ma il suo impatto nella costruzione di una comunità è incalcolabile.

Un segnale di continuità è legato al nome di Gasparinetti, che nel 2000 darà vita, insieme a Silvia Fanti, Andrea Lissoni, Giovanna Amadasi e Federica Rossi, a Xing[5], organizzazione e network, che partendo dall’idea di costruire collettività, tra gli artisti come tra il pubblico, ancora oggi prosegue in uno straordinario lavoro di progettazione culturale tra discipline e linguaggi differenti. Non importa se in un luogo indipendente come Raum, tra i padiglioni della fiera, in un festival come Netmage o rassegne come la Live Arts Week; sempre, però, seguendo linee di ricerca coerenti e mettendo gli artisti nelle condizioni di poter costruire dialoghi e discorsi.

Tutte queste sono solo alcune delle premesse – che spesso si estendono fino al presente – necessarie per mettere a fuoco la formazione di comunità artistiche nella Bologna di oggi. Altro passaggio fondamentale è tentare di classificarle, con un impulso enciclopedico e tassonomico, a partire dalle loro caratteristiche, in particolare guardando alle tipologie di spazi che hanno visto la nascita di sistemi interconnessi.

Come gli artist-run space, per esempio. Nella città emiliana le realtà indipendenti, no-profit e dalla natura ibrida, hanno sempre svolto un ruolo determinante, a partire da Il Graffio, pensato nel 1994 dall’artista e docente Anteo Radovan, uno spazio di libertà per gli artisti che presentava ogni settimana tre mostre personali, o dall’esperienza successiva di Casabianca, dove Radovan, in un casale immerso nei campi ai margini dell’area urbana, proponeva dialoghi e confronti tra gli artisti, ma anche momenti di incontro e discussione al di fuori di logiche istituzionali.

Anche una galleria, Neon, fondata nel 1981 da Gino Gianuizzi insieme a un gruppo di amici e compagni di percorso – la cui storia è stata recentemente riletta e ricostruita all’interno del MAMbo (Museo d’arte Moderna di Bologna)[6] – ha dimostrato di poter diventare un laboratorio permanente, una comunità per artisti, critici e curatori e un luogo di formazione: «Neon per me è stata una macchina desiderante che aveva la funzione di aprire relazioni e che ha sviluppato connessioni rizomatiche e inattese»[7]. Una galleria che quasi arriva a negare la propria natura diventando uno spazio fondato sugli artisti.

Oggi un’esperienza come Gelateria Sogni di Ghiaccio riparte dalla visione di due artisti, Mattia Pajè e Filippo Marzocchi, che hanno ripensato due ambienti collegati in via Tanari Vecchia – a due passi dalla più importante istituzione cittadina, il MAMbo, e da diverse gallerie – dedicandoli a un programma espositivo, a incontri e, contemporaneamente, anche alla ricerca e alla produzione.

Il nome, spiazzante, è frutto di una relazione tra artisti e di un gioco, come raccontano i fondatori sul sito: «Quando Roberto Fassone è entrato per la prima volta nello spazio ha proposto di donare una sua opera che consisteva nel battezzare il luogo con un nome scelto da lui. L’unica condizione che ha posto a priori era quella di accettare incondizionatamente il nome, qualunque fosse stato. Fassone ha inventato una serie di nomi con relativi loghi e brevi descrizioni e ha creato un torneo a eliminazione al quale i nomi hanno partecipato. A decidere le sorti della competizione è stata la curatrice Valeria Mancinelli, che dai quarti di finale, alle semifinali, alla finale ha scelto il nome vincitore nelle varie gare. Il nome trionfante che si accaparra la vittoria del torneo è Gelateria Sogni di Ghiaccio!». Un aneddoto che aiuta a leggere anche la programmazione di un luogo, aperto alla sperimentazione e all’incontro con le esperienze che attraversano la città. Un filo rosso, con le storie dei due fondatori, sembra unirlo, per esempio, alla storia di Localedue, altro progetto no-profit bolognese che non ha mai avuto paura di mettersi alla prova e di testare gli spazi di libertà fuori dal sistema dell’arte, animato dal 2013 da Fabio Farnè, figura di continuità nel segno della costruzione di collettività. Dalla sua esperienza come imprenditore ha saputo negli anni costruire, con e per gli artisti e i curatori, sistemi espostivi e di produzione culturale, prima all’interno delle stesse aziende, poi nella loggia dell’ex Hotel Brun e in trasferta a Milano con Gaff.

Lo studio d’artista è un’altra dimensione su cui si fondano le comunità. Luogo dove dialogo e confronto entrano in contatto con il fare artistico, lo studio è una delle dimensioni che contribuisce a dare forma a specifiche modalità di condivisione.

Alchemilla è un progetto costruito intorno a un edificio, Palazzo Vizzani in via Santo Stefano, nel centro di Bologna. Uno spazio multifunzionale e condiviso in un edificio storico che risale al XVI secolo, che ospita atelier di artisti particolarmente significativi per la città – come David Casini e Cuoghi Corsello, Valentina Medda e Milena Rossignoli – e residenze dedicate ad artisti più giovani, ai quali viene data la possibilità di sviluppare e completare nuove produzioni e di lavorare su spazi e contesti specifici.

La dimensione espositiva e di apertura alla città diventa così un ulteriore forma di restituzione, che può dialogare o rendersi indipendente dalle esperienze interne al palazzo.

Il Collegio Venturoli, oggi una fondazione, ma in realtà aperto nel 1825 con il lascito e per volere dell’omonimo architetto, è una realtà più istituzionale, ma che allo stesso modo offre ambienti di lavoro e borse di studio agli artisti emergenti. Si apre dietro la facciata di un edificio settecentesco di via Centrotrecento e qui ha sede anche lo studio di Sissi, un’infilata di camere delle meraviglie e archivi che si pone come uno dei riferimenti di tutto il sistema dell’arte bolognese.

Lo studio è stato infine lo spazio che il MAMbo ha offerto agli artisti al momento della riapertura, a conclusione dell’emergenza sanitaria dettata dalla pandemia di COVID-19. Prendendo il nome dalla funzione originaria dell’edificio che oggi ospita il museo, il Nuovo Forno del Pane è stata un’esperienza che ha offerto, a chi ne aveva necessità, un luogo di produzione e soprattutto di costruzione di una comunità, mettendo in standby la natura espositiva dell’ambiente principale del museo, trasformandone la funzione.

Ruth Beraha, Paolo Bufalini, Letizia Calori, Giuseppe De Mattia, Allison Grimaldi Donahue, Bekhbaatar Enkhtur, Eleonora Luccarini, Rachele Maistrello, Francis Offman, Mattia Pajè, Vincenzo Simone e Filippo Tappi hanno occupato da luglio a dicembre 2020 la Sala delle Ciminiere, lavorando in senso specifico e condiviso alla creazione di lavori e progetti.

Da quest’anno l’esperienza si estenderà con sei nuovi attori – Lorena Bucur, Beatrice Favaretto, Valentina Furian, Giorgia Lolli, Lorenzo Modica e Davide Sgambaro – a sei distretti culturali della città metropolitana, ampliando la rete su luoghi e centri d’arte e riportando il museo al centro di un sistema produttivo fondato sull’artista: un ulteriore tentativo di modificare, con leggeri spostamenti, rapporti all’interno del mondo dell’arte, per permettere a chi l’arte la produce di autodeterminare condizioni, luoghi e modalità di confronto.


[1] <http://www.notteitaliana.eu/locale/link/>.
[2] L. Lo Pinto, L. Vitone, Ho voluto volere. Appunti per una conversazione con Luca Vitone, in Io, Luca Vitone, catalogo della mostra a cura di L. Lo Pinto, D. Sileo, Silvana Editoriale, 2017, p. 16.
[3] Incursioni, a cura di L. Vitone / Xing, Edizioni Zero, 2005, s.p.
[4] Testo pubblicato sull’house organ del Link Project nel gennaio 1996.
[5] https://zero.eu/it/news/comunita-temporanee-architetture-formati-la-storia-e-le-creature-insolite-di-xing/.
[6] No, Neon, No Cry, a cura di G. Gianuizzi, Edizioni MAMbo, 2022.
[7] Intervista con Gino Gianuizzi, in «ATPDiary», 20 aprile 2022 <https://atpdiary.com/no-neon-no-cry-mambo-gino-gianuizzi/>