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Costellazioni di comunità
Uno sguardo su Roma

SPAZIOMENSA, veduta della mostra inaugurale, 2020, foto Giorgio Benni

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Il tentativo di intercettare una comunità artistica a Roma presenta inevitabilmente una criticità metodologica data dalla molteplicità e stratificazione di linguaggi propri di una città tanto estesa e plurale. In effetti, più che di una comunità unica dell’arte, intesa come complesso organico, si può piuttosto parlare di una costellazione di esperienze di comunità che operano su più piani. L’impostazione della ricerca richiede, dunque, l’individuazione di un piano analitico dal preciso orientamento, e che in questo scritto si vuol fare coincidere con le aggregazioni di artisti nate dall’esigenza di operare sinergicamente in un’ottica di condivisione e scambio, nonché di attivazione di progettualità artistiche aperte alla collettività. Si vorranno quindi tracciare le esperienze più rilevanti che negli ultimi anni hanno avuto luogo nel contesto di una nuova ondata di progetti sul territorio.

Risulta innanzitutto funzionale una sintetica – e per questo non esaustiva – ricostruzione della genealogia di questo fenomeno. Andando più indietro nel tempo, un esempio rinomato, e ormai storicizzato, è quello del Pastificio Cerere[1], reso noto dalle vicende della generazione di artisti riunitasi nei suoi spazi. Di questi, alcuni si ritrovarono successivamente ad animare l’arcipelago di studi di via Arimondi, in zona Portonaccio[2].

Tra le vicende di comunità originate dalla logica aggregativa del collettivo, ma altresì interessate a innescare pratiche interdisciplinari e partecipative, non può non essere citata quella di Stalker[3], ancora attiva nel territorio romano con sempre nuovi e articolati programmi.

Infine, sebbene non si tratti tanto di uno spazio animato da una collettività di individui, ma piuttosto di un catalizzatore di una comunità di artisti, preme segnalare la lunga attività di Edicola Notte, nata per volontà dell’artista H.H. Lim.

Un certo movimento, come anticipato, si è potuto di recente riscontrare a Roma dopo diversi anni.

Lo spartiacque di questo fenomeno, nonché del relativo interesse da esso suscitato, può individuarsi nel periodo post-pandemico, e in particolare nell’autunno del 2020. In questo contesto, agevolata da una temporalità espansa e dall’interruzione della frenesia del flusso di viaggi degli addetti ai lavori, la fioritura di nuovi spazi si è posta come occasione per il riconoscimento di progetti e gruppi già attivi da tempo o, più genericamente, di una generazione di artisti, già operante a Roma, che fino a quel momento non aveva probabilmente ricevuto adeguata attenzione.

Si è così andata configurando in modo incontrovertibile una tendenza degli artisti ad aggregarsi, cercando occasioni di confronto e scambio su base quotidiana, animati dalla volontà di creare sinergie nell’ideazione di nuove proposte espositive per partecipare attivamente alla vita culturale del territorio.

Corrisponde anche a questo periodo, una certa attenzione da parte degli addetti ai lavori, che ha condotto a diverse proposte di mappature del fenomeno, tra cui il libro Vera, curato da Damiana Leoni (2021), la mostra Materia Nova curata da Massimo Mininni presso la Galleria d’Arte Moderna di Roma nel 2021, nonché cicli di incontri in alcune istituzioni, come Mai visto a Roma (Roma Arte in Nuvola, 2021) e Area condizionata (MACRO, Museo d’Arte Contemporanea di Roma, 2022).

Quanto, però, la volontà di creazione di una comunità si conferma come motore portante di determinate scelte progettuali, o quanto piuttosto questa è vissuta come eventualità?

Nel panorama finora descritto, tali motivazioni si vedono ora legate alla necessità di sviluppare una pratica e ritualità collettiva, ora alla volontà di offrire una risposta concreta alle carenze sistemiche e istituzionali che innegabilmente il territorio presenta, compensate dalla realizzazione di specifiche iniziative[4]. In altri casi, invece, le aggregazioni sono mosse da un’analogia di visione e di linguaggio. A quest’ultima fattispecie corrisponde sicuramente il caso di Numero Cromatico, in cui la finalità principale dell’aggregazione corrisponde con quella della creazione artistica. La convergenza di visione estetica, da un lato, e la volontà di definire un agire comunitario come obiettivo a monte, dall’altro, li pone come esempio opportuno da approfondire. Il collettivo si è formato nel 2011, accogliendo negli anni un numero sempre maggiore di adesioni da parte di artisti e ricercatori al fine di creare una «comunità di persone che condivide intenti e ideali»[5], e virando gradualmente la propria pratica verso un’azione intesa come espressione di una «identità collettiva»[6].

Tale matrice ha gradualmente condotto le loro pratiche verso la creazione non solo di propri progetti artistici, ma anche di altre iniziative, aperte a un coinvolgimento più ampio di pubblici e collaboratori esterni, come il progetto editoriale «Nodes» (magazine incentrato sul rapporto tra arte e neuroestetica) e l’organizzazione di mostre, laboratori, performance e progetti curatoriali.

Il collettivo, sin dagli esordi, si è interrogato sul possibile ruolo della scienza nella comprensione di quanto accade, a livello cerebrale, durante l’osservazione di un’opera d’arte, o più generalmente sul funzionamento dei meccanismi della percezione. Mantenendo come punto fermo tali quesiti, molte delle loro iniziative hanno tenuto fortemente in considerazione contesti e prassi di fruizione come gli orari di visita, le condizioni ambientali e climatiche, sperimentando altresì le possibilità poetiche e di linguaggio legate all’utilizzo dell’intelligenza artificiale.

È opportuno, inoltre, citare gli esempi di SPAZIOMENSA e Spazio in Situ, due esperienze di diverso segno che si intende approfondire con lo scopo di stimolare una riflessione sul ruolo concreto che queste aggregazioni artistiche possono ricoprire per attivare pratiche comunitarie, a partire dalla definizione di un nuovo panorama artistico e culturale[7].

SPAZIOMENSA, compagine formata in origine da cinque artisti e due curatori, in particolare nella stagione 2020-2021 ha portato avanti un’intensa programmazione espositiva nell’Ex Cartiera di via Salaria. Si può affermare che l’attività dello spazio abbia contribuito a tracciare i contorni di un vuoto progettuale ormai evidente nella scena contemporanea capitolina, dimostrando, seppur più marcatamente nel breve periodo, il potenziale della convergenza e circolazione di energie alternative.

In quanto realtà più strutturata, più longeva, Spazio in Situ, caratterizzata da una meticolosa organizzazione, offre un’immagine organica e funzionale nella condivisione di uno spazio espositivo e di creazione, esprimendo il valore di una realtà che potrebbe configurarsi come vero e proprio avamposto comunitario in un contesto periferico, largamente escluso da ogni fruizione possibile per l’arte.

Queste scintille, foriere di strategie di trasformazione possibili, non sono state tuttavia forse adeguatamente registrate nelle sedi istituzionali di riferimento, e particolarmente in quelle municipali, come buone pratiche percorribili.

Un elemento di criticità generale, in questo panorama, potrebbe individuarsi nella conformazione di comunità che spesso non si estendono al di fuori dei determinati gruppi o dei loro frequentanti.

Esperienze dichiaratamente interessate a un rapporto con il territorio sono tuttavia presenti, e condividono l’intento di incentivare il riconoscimento di una coappartenenza più ampia: è questo, ad esempio, il caso di SA.L.A.D. (San Lorenzo Art District), iniziativa per la mappatura e messa in rete dei diversi artisti e delle realtà del quartiere San Lorenzo, che punta, pur nella breve attività finora svolta, all’implementazione di un dialogo tra i diversi attori operanti, spazi e operatori culturali, favorendo il coinvolgimento sempre maggiore di abitanti del territorio. Le attività di divulgazione, svolte ad esempio attraverso la formula delle visite guidate, sono, infatti, realizzate in un’ottica inclusiva, rivolgendosi prevalentemente a persone avulse dal contesto artistico.

A questa fattispecie può, inoltre, ricondursi il lavoro di SPAZIO GRIOT che, seppur con una derivazione più assimilabile a un modello curatoriale, negli ultimi anni si è particolarmente speso sul territorio romano orientando le sue attività verso un maggiore coinvolgimento di comunità extra-artistiche.

Nella proiezione di un senso di comunità auspicabile su lungo periodo, capace di anteporre l’interesse collettivo ai meccanismi di ambizione individuale, si pone il tema di quali siano le condizioni da raggiungere per la costruzione di un ecosistema adeguatamente fertile.

Se la fioritura, e la vitalità, di un numero così cospicuo di realtà artistiche al di fuori degli spazi ufficialmente deputati all’arte può leggersi, in conclusione, come elemento sintomatico della debolezza, e finanche dell’assenza, di una strategia comune di un sistema che non si rivela, spesso, capace di agevolare la progettualità delle nuove generazioni, una soluzione deve ricercarsi in uno sforzo prolungato e dialogico tra gli operatori e le amministrazioni.

Una progressiva presa di consapevolezza da parte delle istituzioni del proprio ruolo potrà certamente contribuire a sbloccare quei meccanismi che oggi, purtroppo, appaiono inceppati in più punti.


[1] L’avventura artistica del Pastificio Cerere inizia negli anni Settanta. Il primo a installarvi il proprio studio, nel 1973, fu Nunzio, seguito da Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Piero Pizzi Cannella e Marco Tirelli (membri di quella che fu successivamente definita la scuola di San Lorenzo). Nel tempo, altri spazi sono stati adibiti a studi, ospitando artisti come Myriam B, Ottavio Celestino, Giovanni De Cataldo, Ileana Florescu, Rossella Fumasoni, Roberta Mariani, Meletios Meletiou, Michele Melotta, Leonardo Petrucci, Gianni Politi, Pietro Ruffo, Andrea Stoger e Alessandro Valeri. Nel 2004, Flavio Misciattelli ha dato vita alla Fondazione Pastificio Cerere, rinnovando la vitalità di questa esperienza, riunendo generazioni diverse per sottolineare l’indiscussa continuità culturale sorta per il continuo e reciproco scambio fra gli artisti.
[2] Le premesse di questa aggregazione risalgono al 2004, quando un gruppo, che vide originariamente coinvolti Gianni Dessì, Piero Pizzi Cannella, Angelo Cricchi, si installa in un ex magazzino in zona Portonaccio. A questo primo nucleo, si unirono, nel tempo, Claudio Abate, Elisabetta Benassi, poi ancora Mauro di Silvestre, Marco Colazzo, Veronica Botticelli, Caterina Silva, Seboo Mingone, Francesca Romana Pinzari, Alessandra Amici, e, in seguito, Claudio Asquini, Ivan Barlafante, Alice Paltrinieri, Dario Coletti e Paolo Bonfini.
[3] Collettivo di artisti e architetti, nato nel 1995, tra cui i fondatori Francesco Careri e Lorenzo Romito, che negli anni ha coinvolto il pubblico in progetti di comunità, in particolare rivolti alle aree residuali e in trasformazione.
[4] Nelle fattispecie di gruppi connotati da ricerche estremamente diverse, la tendenza generale sembra quella che, all’affermazione di una visione estetica comune, predilige una comunità del fare. Realtà come Post-Ex, Paese Fortuna, Ombrelloni, Condotto 48, Rione Placido, nascono innanzitutto dalla volontà di trovare un luogo in cui lavorare insieme. Le ragioni di ordine pratico, come l’alleggerimento dei costi relativi agli spazi, possono certamente concorrere all’affermarsi di questo fenomeno; tuttavia, da sole, non costituiscono una spiegazione esaustiva a una così netta tendenza generazionale. Non bisogna comunque sottovalutare il valore di tali spazi nell’ampliamento e consolidamento di una già esistente scena artistica che può arricchirsi, sebbene temporaneamente, di interlocutori e partecipanti esterni. Si può citare, in questo senso, l’attività di Post-Ex con la recente residenza d’artista EX PRESSO, così come quella di CASTRO.
[5] Arte falsificabile e assenza di significato. Principi estetici e fare collettivo nell’azione di Numero Cromatico, testo di Numero Cromatico consultabile in pdf sulla home del sito www.numerocromatico.com (ultimo accesso 14/022023).
[6] Ibidem.
[7] Va infatti segnalato come la condivisione di progettualità e lo scambio di mutuali occasioni di sperimentazione tra i membri dei diversi gruppi abbia certamente consentito ai componenti degli stessi di presentare il proprio lavoro artistico o curatoriale. Sono stati spesso questi luoghi, infatti, i primi palcoscenici per le sperimentazioni di ben definite aggregazioni di artisti e curatori, in un clima dinamico di auto-organizzazione.