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Uno specchio attraverso il tempo

L’Euripide dei Motus come spina perturbante nel fianco del presente
Cavalli morti uccisi dagli invasori russi giacciono lungo la strada nella regione di Hostomil. La Russia ha invaso l’Ucraina il 24 febbraio 2022, scatenando il più grande attacco militare in Europa dalla Seconda guerra mondiale, ©MykhayloPalinchak/SOPA Images

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Le variazioni cromatiche del buio, il campo piatto di cenere e giochi neri, la voce straziata del canto, i corpi senza riparo né riparazione. In una orizzontalità che non decifra il tempo Tutto brucia.

Ricevo l’imprevisto invito a riflettere sull’ultimo lavoro dei Motus, ideato e diretto da Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, una riscrittura delle Troiane di Euripide, con Silvia Calderoni, Stefania Tansini e R.Y.F., decidendo di tenermi al lato, nel riverbero di quell’oscurità, sulla scia indicibile che l’atto del costituirsi in oggetto inaugura.

I resti vivi di questa invenzione nitidamente incorporata muovono, a distanza di mesi, nella cornice instabile del poi, una riflessione sul fondamento.

Non è dello spettacolo che intendo far discorso. Ne colgo tuttavia in modo centrale la tersa compiutezza, l’effettività che sola fa del fluente accumulo sensoriale identità, oggetto. In questa tragedia del pianto, la luce è luce, il corpo è corpo, la voce è voce, la materia nella sua molteplicità concorre in uguale misura all’attuazione di un’esperienza grembo, alla quale lo spettatore è ‘eventualmente’ condotto a consegnarsi.

Se con ‘azione’ intendiamo l’evento capace di determinare effetto, ma anche l’effetto stesso, la prima cruciale osservazione riguarda l’effettività, il divenire fatto, il realizzato, a sua volta generatore di fatto. Tutto brucia si inscrive nell’ordine dell’‘azione’, di un mettere in campo che non dichiara, attua, sapendo dispiegare identità e porre finalmente lo spettatore nella condizione – ricevendo – di rifiutare, accogliere.

L’atto – il compiersi autoevidente della ‘cosa’ performativa – assume su di sé la responsabilità del senso nel farsi effettivamente oggetto, nell’autodeterminazione del proprio fondamento, nell’assenza di legittimazione, di legge.

L’atto è solo. Ingiustificabile, consegnato. Qui sta la ‘visione’, la sua solitudine.

Tragico è l’atto del canto, del portare visione, l’annuncio, non – o solo secondariamente – l’annunciato. Cassandra è sola. Errante, oltraggiosa, condannabile per il fatto stesso di vedere ciò che non è visto, di testimoniare ciò che non è testimoniabile, di assumere come destino il gesto singolare e fallibile. Ed è unicamente in virtù del realizzato, di ‘quel’ proprio darsi fenomeno, che la fallibilità coincide con la responsabilità, avvicinando il reale e il suo rovescio.

Nel tempo dell’ipertrofia comunicativa, della proliferazione che moltiplica, disperde, smarrisce, ricrea, crea a uso dell’ipnosi collettiva del consumo, c’è qualcosa di anacronistico e persino patetico nel credere a quel poter prendere su di sé, a quella ostinata, maniacale cura del fatto, di una presenza, di una resistenza, di un destituito attaccamento al concreto che diventa paradossalmente crepa metafisica.

Ugualmente anacronistica la voce quasi lignea che levo in favore del fatto, del tatto, della durezza, del muto incontro, della materia, dell’azione che nella differenza rompe un’egemonia e manifesta. Sono riconoscente a chi è. A chi sta.

Non è mimesis il canto, il dato non è il rappresentato, ma la responsabilità ineludibile dell’esserci. Dell’esser spazialmente, temporalmente presente, di quel trovarsi nell’urto dell’‘altro’, che è esposizione, deposizione, disposizione, prima di tutto percettiva, a ricevere.

Lo sguardo che vede è sguardo autore, sguardo che apre, riconosce, accorpa, che manifesta pluralità e inerenza, che opera nell’aisthesis, riconfigurando con il gesto semplice di un ecco. Chi anche solo per un istante vede, è autore nella solitudine dell’esperienza, nella responsabilità del ricevere, nel dare forma.

Accomuna il riconoscimento. Desitua, risitua. Inaugura. Il passante, che nel moto di un dubbio si faccia spettatore, diviene costitutivamente autore, attore. Di senso. Di mondo.

Ed è con la costituzione di mondo che la scena ha a che fare, con l’instaurarsi del senso, non con il suo racconto. Con l’azzardo originario di una messa in opera, che interrogando i processi di attuazione e di fruizione nella dinamica delle interdipendenze e della relazione, ne istituisce la possibilità e l’orizzonte.

L’oggetto performativo è un ordito che la penetrazione del reale manifesta nel fenomeno, e anche: l’oggetto è il reale che l’ordito fallibile provvisoriamente manifesta.

Tentare e intentare il senso, edificare e celebrare, è il modo di una inarginabile, specificamente umana ricerca di cosmo, e nell’ordine e nella ritmica dei linguaggi di dar misura all’irruzione di realtà.

Era – credo – l’anno scorso quando Tutto brucia ha debuttato.

La realtà fa, disfa, collassa nell’oggetto riverberante, l’oggetto nella realtà.

Il vuoto pandemico aveva già impresso un traumatico arresto nelle vite e chiesto che le azioni – quelle pubbliche almeno – avessero nuovamente, radicalmente senso.

Il tessuto poroso del farsi opera continua a respirare tempi di morte per attenta mano d’uomo. ‘Quali vite contano? Cosa rende una vita degna di lutto?’

Su questa strada di rovesci, scure sagome mostrano il tempo che è succeduto, destinando alla visione noi, passanti autori.