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Storia di un italiano
La luce dei chiarimenti per fugare l’ombra delle vendette

Invernomuto, MALÙ – Lo stereotipo della Venere Nera in Italia [censored], 2015, still da video, courtesy gli artisti e Pinksummer, Genova

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La storia è nota: Indro Montanelli è stato uno dei tanti volontari della guerra d’aggressione che l’Italia negli anni Trenta del secolo scorso aveva mosso contro la libera Etiopia. Il ruolo dell’allora giovanissimo Montanelli era stato, per poco tempo a dir la verità, quello di ufficiale capo di una banda di soldati locali: gli ascari. Ma dopo un piccolo incidente la sua avventura ‘all’aria aperta’ – così la definiva lui – finì presto. Quando Mussolini, il 9 maggio del 1936, annunciò «la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma», il suo Impero fascista in Africa, in continuità con l’Impero di Augusto, Montanelli era già passato alle più tranquille retrovie del conflitto, esattamente all’ufficio stampa e propaganda dell’esercito, scrivendo numerosi articoli sul quotidiano «La Nuova Eritrea». L’avventura – così la definirà Montanelli – verrà poi glorificata in un suo testo dal titolo XX Battaglione eritreo, dove, come un novello Kipling, descrive il suo personalissimo, e coloniale, fardello di uomo bianco, in perenne lotta con la natura selvaggia e con l’indole di una banda di uomini, gli ascari, brutali nel loro essere marziali, che lui, con la sua italica civilizzazione, era riuscito a rendere necessari per la guerra mussoliniana e devoti all’Italia. Echi conradiani attraversano le parole scritte dal giovane Montanelli. E questo è stato il primo mattone su cui il giornalista ha costruito la sua lunga carriera. Un Indro coloniale che nel tempo è stato surclassato dagli altri aspetti della sua vita, non ultimo il confronto-scontro con Silvio Berlusconi, negli anni dei successi del suo progetto politico e dei suoi governi. Di fatto nemico numero uno di Berlusconi, Indro Montanelli, mai amato dai progressisti, diventa nel decennio Novanta/Duemila una sorta di bandiera bipartisan, da far sventolare all’occorrenza, cancellandone il passato scomodo al pensiero progressista, ovvero quello dell’immediato dopoguerra o degli anni di piombo, e issandolo sul piedistallo della lotta al berlusconismo. Al momento della sua morte, Montanelli ebbe intorno al suo feretro Italie tra loro antitetiche, conservatrici e progressiste, che vedevano in lui un faro di ragionevolezza contro un’Italia ormai avvinta dal sorriso sornione e dalle manovre del patron di Mediaset, l’uomo che univa il potere del governo al potere delle televisioni, il tycoon italiano che avrebbe poi fatto scuola nel mondo. L’essere andato contro un potere di tal fatta fece di Montanelli un eroe. Ma chi viene issato su un piedistallo ne viene anche malamente buttato giù. E, in fase postuma, la sua figura divenne nuovamente centrale, per tutt’altri motivi rispetto a quelli che lo avevano trasformato in un eroe. E qui torniamo al Montanelli colonialista, quello un po’ dimenticato, opaco, non centrale: l’Italia stava di nuovo cambiando, e la Storia illumina aspetti che si credevano dimenticati e li rimette al centro della scena in modo inaspettato. Intorno alla metà degli anni Dieci del nuovo secolo, nel momento in cui arriva nel Paese l’onda lunga del postcolonialismo e la consapevolezza che il fenomeno migratorio è ormai strutturale agli assetti della Nazione, l’Italia si accorge, soprattutto in ambito intellettuale (accademie, circoli artistici) di non essersi occupata mai del suo passato coloniale o, meglio, che chi se ne era occupato era stato considerato eccentrico, poco studiato, relegato alla mera storiografia militare. In Italia abbiamo avuto grandi studiosi di colonialismo. Primo fra tutti quell’Angelo Del Boca che proprio con Montanelli intavolò una lunga discussione sull’uso del gas iprite in Etiopia da parte delle truppe italiane, tesi negata per anni da Montanelli. Sta di fatto che Del Boca è considerato unanimemente pioniere degli studi coloniali, il suo Gli italiani in Africa orientale è una bibbia storiografica, ma non è stato l’unico. Pensiamo a Nicola Labanca o ad Alessandro Triulzi, che hanno messo in primo piano aspetti nascosti, soprattutto a livello militare, di un’occupazione che a stento è entrata nei libri di Storia. Ma già a inizio anni Duemila, e con più forza negli anni Dieci, c’è stata una presa di posizione su quello che la storia coloniale ha rappresentato per l’Italia in termini di razzismo, sessismo, classismo. Ormai l’Italia era diventata plurale, molte le presenze nere e, tra queste, molte del Corno d’Africa, che rivendicavano con i loro corpi, le loro opere, le loro riflessioni, una presa di coscienza. E a queste presenze si univano accademici, ma più accademiche, che facendo propri gli studi postcoloniali, mettevano al centro aspetti che la storiografia militare aveva toccato trasversalmente, recuperando anche il pensiero di storiche donne o di minoranze: Giulia Barrera, Giulietta Stefani – che con il suo Colonia per maschi ha aperto un filone di studi – sono diventate, di fatto, parte di un curriculum storico decoloniale. Si scavava su aspetti quali il concubinaggio forzato, il cosiddetto madamato, a cui erano costrette le donne colonizzate, le storie delle violazioni continue dei loro corpi, la triste vicenda dei bambini abbandonati in colonia perché frutto di incontri sessuali, consenzienti e non, con donne del luogo, le conseguenze delle leggi razziali in colonia, e altro ancora. E in questa fase, la figura di Montanelli colonialista ha una nuova centralità, nefasta ma comunque un punto di partenza, che vede movimenti (femministi e non) e accademia in costante scambio e dialogo. Montanelli non ha mai nascosto il suo passato. Anzi nel tempo si è vantato di quella che chiamava ‘l’avventura’. E ci ha lasciato numerosi interventi, sia video sia scritti, in cui non mostra alcun pentimento; al contrario il colonialismo è descritto come un momento rivitalizzante per la sua virilità: le cavalcate solitarie, il comando su un gruppo di soldati, ma anche l’avventura sessuale esotica, quasi un topos coloniale, con la bella ‘indigena’. La figura della donna ‘altra’ fa la sua apparizione – è storia nota – nel programma di Gianni Bisiach L’ora della verità, dove, istigato bonariamente dalle domande del suo collega, Montanelli parla del suo ‘animaletto’, una bambina di 12 anni (poi in altre versioni ne avrà 14) comprata dal padre insieme ad altre cianfrusaglie, per pochi spiccioli. Elegante, maglione a collo alto, giacca, sguardo sornione di chi vuole sorprendere, Montanelli quasi si giustifica con un gesto della mano precisando che ‘12 anni in Africa sono un’altra cosa’, perché in Africa – ed è l’Indro coloniale a prendere il sopravvento – quelle sono ‘già’ donne. Il programma avrebbe potuto finire lì. Il pubblico avrebbe accettato forse che ‘quelle lì’ sono donne a 12 anni e si sarebbe passati, dopo un veloce carosello, a qualche musicarello in voga all’epoca. Ma è il 1969, l’Italia stava cambiando, le donne stavano cambiando e, dal pubblico, una donna, Elvira Banotti, figlia del colonialismo italiano, afrodiscendente, dice all’Indro coloniale – che gigioneggiava in studio con il suo maglione alto e la sua giacca di sartoria – che in Africa non è un’altra cosa, che a 12 anni si tratta di stupro. Non ci può essere un rapporto consenziente con una persona minore in posizione di sudditanza.

La donna, con un italiano radioso, mette in fila una serie di parole d’ordine che saranno recuperate poi dai movimenti degli anni Dieci del Duemila.

Montanelli tornerà più volte sulla storia della bambina costretta a concubinaggio forzato. Naturalmente non parlerà mai di forzatura. La definirà romanticamente la mia sposa bambina, chiamandola a volte Destà, altre volte Fatima, facendo vedere a Enzo Biagi, che lo intervista attento, un ritratto abbastanza sfocato, di una ragazza di profilo, con un foulard in testa e un mezzo sorriso accennato. Di fatto lascia una scia di prove di ciò che dalle attiviste, e non solo da loro, verrà riconosciuto come un crimine sessuale, con l’aggravante della compiacenza; in tutti i suoi scritti Montanelli si vanta della sua avventura, ribadendo più volte che non rinnega niente, pur riconoscendo che quello di ‘babbo’ Mussolini fu un errore geopolitico, una guerra d’aggressione quando il tempo del colonialismo diretto era finito.

La storia di Montanelli racconta molto a livello storiografico: fatti, omissioni, invenzioni. E anche per chi non sia storico presenta aspetti interessanti, sicuramente inquietanti, che raccontano un periodo di contraddizioni che può diventare oggetto di riflessione artistica, politica. Quanto di vero c’è nella storia che Montanelli racconta? Quanto di vita vissuta e quanto di echi romanzeschi o diaristici altrui? Quanti cliché? Fu realmente un’avventura all’aria aperta? Fu facile per lui stare lontano da casa e dalle comodità? Era un tipo marziale o fingeva di esserlo? Qual è stato il suo vero rapporto con le truppe coloniali di cui era a capo? E perché una volta ferito ha preferito, invece di tornare all’avventura tanto amata a parole, scrivere dalle retrovie? E la ragazza dodicenne che romanticamente definisce ‘sposa’ è esistita davvero? O in lei ha sublimato incontri sessuali a pagamento o fantasie erotiche nate sulla scorta di fotografie, esperienze altrui, libri? Quanto sappiamo di questa ragazza? Cosa sappiamo della sua vita – sempre ammettendo la sua reale esistenza – dopo Montanelli? Sarà proprio lui a rivelare in una sua intervista che la bambina, ormai donna, aveva avuto un figlio con un conterraneo e lo aveva chiamato Indro. Tanto che alcuni storici, dubbiosi di questa notizia approssimativa, sono andati alla ricerca di questo Indro in Eritrea, senza trovarlo.

Sta di fatto che della storia coloniale di Montanelli non si hanno prove, nessun documento o testimonianza orale, tranne le sue stesse parole. Davanti a questo racconto, che non è Storia, ma è sicuramente una rivisitazione personale della propria storia, si trova però lo spirito di una rivendicazione. Ed è questo, per me – e qui parlo a titolo personale – l’aspetto rivelante dell’affaire Montanelli. Il fatto che la sua ‘colonialità’ venga vissuta come costruzione del proprio sé maschile. E come questo sé sia riverberato nella vita di molti ‘maschi’ italiani nel dopoguerra plasmando parte della nostra Repubblica e delle sue ombre. Io che scrivo non so, non avendo prove, se quello che Montanelli ha raccontato sulla sua vita in colonia sia vero o meno, ma so che il suo racconto ci dà strumenti per capire il residuo coloniale che intossica oggi il Paese, e di cui non siamo riusciti a sbarazzarci. Ci parla di zone d’ombra. Di ambiguità manifeste. Il coloniale non è, non può esserlo per sua natura, lo spazio del bianco e del nero, lo spazio della certezza, può essere solo una zona in between, un grigio, un torbido, un poco nitido. E ogni storia, dalla più edificante alla più squallida, ci deve spingere a usare la riflessione. A non accontentarci di spiegazioni facili. Non dobbiamo cercare eroi, ma nemmeno fabbricare mostri. In modo sincero, dobbiamo trovare l’equilibrio dei fatti e, in mancanza di sicurezze, cercare di costruire un sapere complesso. Non è stato così nei nostri anni; si è preferito tirare la Storia da una parte all’altra a seconda delle rispettive posizioni.

E torniamo a Montanelli: il 22 maggio 2006, a quasi 5 anni dalla sua morte, viene inaugurata a Milano una scultura in bronzo che lo rappresenta. La cerimonia avviene alla presenza del sindaco Gabriele Albertini. L’operazione fa parte di un disegno urbano per omaggiare l’ala conservatrice della metropoli del Nord. La location non è casuale, nel luogo esatto in cui il giornalista era stato gambizzato durante gli anni di piombo, un omaggio, quindi, al Montanelli del dopoguerra, conservatore, a tratti estremo, oggetto di uno scontro politico con il progressismo, precedente alla pax berlusconiana tra conservatori e progressisti. Ma dopo alcuni anni, questa statua, è il 2019, subisce un cambio di segno: il movimento femminista Non una di meno, in occasione della marcia dell’8 marzo, getta, in un’azione dimostrativa, inchiostro lavabile rosa sulla statua. Per sottolineare la tossicità della storia coloniale di cui Montanelli è portatore, mettendo al centro l’episodio di Fatima-Destà. La protesta ha una forza dirompente, l’efficacia della protesta, totale. Si accendono i riflettori sul Montanelli colonialista. Si comincia a dibattere. Ma ciò che è cominciato come un atto dovuto non ha aperto, soprattutto tra gli studiosi, una discussione franca e sincera sul periodo e sulla maschilità, così come analizzata da Giulietta Stefani nel suo libro. L’attraversamento maschile della colonia, con il suo portato di patriarcato e razzismo – e basterebbe leggere anche Ennio Flaiano, che in Tempo di uccidere ha fatto una fotografia reale e impietosa di chi andava in colonia – è rimasto purtroppo di sottofondo. E l’affaire Montanelli si è avvitato su sé stesso. Con ulteriori atti dimostrativi sulla scultura, vernice rossa invece di rosa, con la costruzione di sculture provvisorie antagoniste, la comparsa di una statua di Sankara, il leader del Burkina Faso assassinato nel 1987, nonché di un murale in cui Fatima-Destà viene rappresentata come un’attivista del Black Lives Matter, o meglio, nel medesimo atteggiamento di lotta.

E così per molti movimenti, studiosi, studiose, Montanelli Indro, giornalista, conservatore, factotum di molte storie segrete e non d’Italia, è diventato simbolo della degenerazione del colonialismo. La ‘mostrificazione’ ha portato però a non vedere ben altri mostri. Per esempio la figura di Rodolfo Graziani, gerarca fascista e criminale di guerra cui è stato dedicato nel 2012 un sacrario militare, uno schiaffo alla Costituzione antifascista del Paese, non è quasi conosciuta. La sua storia coloniale, violenta, criminale, è avvolta ancora nell’oblio, e Graziani è stato funzionale alla costruzione del ventennio fascista più del giovane Montanelli. Entrambi raccontano una storia a lungo dimenticata. E l’accenno a Graziani serve a ricordare che chi lavora con la Storia ha bisogno di uno sguardo ampio. Non vendetta ‘postcoloniale’ bensì chiarezza ‘postcoloniale’. Simboli, che invece di diventare campo da gioco di opposte fazioni, annullando la forza delle loro storie contraddittorie, possono trasformarsi in occasione di dibattito, serrato, efficace, complesso. Un dibattito storiografico, fuori dall’ambito accademico, che approdi nelle aule scolastiche e che ci insegni il chiaroscuro della Storia. Questo vale per le figure di Montanelli e Graziani ma anche per gli armadi della vergogna familiare, dove le storie in colonia di nonni, zii, padri, non diventino più qualcosa da nascondere, per paura di essere giudicati, ma da far scoppiare nel cuore della Nazione. In questo senso essenziale, e quasi un programma per il futuro, è il titolo del romanzo di Davide Orecchio, Storia aperta. Le vicende del padre di Orecchio, vengono narrate dal figlio attraverso una serrata ricerca d’archivio, ma anche ripescando obliate memorie familiari. Emerge il profilo di un personaggio prima convintamente fascista, colonialista, e poi convintamente comunista. Per poi diventare, negli ultimi anni di vita, orfano delle ideologie. Con uno stile maestoso, fatto di tante voci esterne e interne che prendono il sopravvento, l’autore racconta che l’umana esistenza è complessa; piena di curve, risalite, improvvisi crolli, vergogne e pregi. Una vita che non può essere mai chiusa nello schema rigido di una frontiera ideologica, ma che necessariamente deve essere aperta. Non più bandiera, feticcio, rovescio, ma ‘storia aperta’, reale, ibrida.