Cerca
Close this search box.

Spettri, feticci e morti-viventi

Tra Storia degli eventi e Storia dell’arte
Hegel al lavoro, foto Marco Senaldi

Questo articolo è disponibile anche in: English

«Tutto è recente/

Come uno squillo di sveglia»

Pasquale Panella, Tubinga

Al mattatoio dello Spirito

Un ‘feticcio’ assilla l’odierna filosofia della storia – il feticcio della Storia stessa. Non c’è storico, intellettuale, manuale scolastico, che non sia ipersensibile a qualunque visione che soltanto accenni a porsi come ‘modernista’, ‘gerarchica’ e ‘verticista’: per una sorta di riflesso pavloviano (culturalmente) condizionato, non appena si senta parlare di Storia in senso universale, deterministico e lineare, la bava alla bocca dei cani del ‘pluralismo epistemico’ comincia a salire: l’ipersensibilità si fa allergia, l’allergia ripulsa, la ripulsa ripugnanza, per trasformarsi infine in condanna conclusiva e senza appello.

La condanna del crimine va di pari passo con l’identificazione del colpevole – il filosofo più di ogni altro responsabile di questa distorsione del fluire disordinato e anarchico degli eventi –, Hegel.

È sintomatico che a schernire i ‘vuoti schemi logico-dialettici’ da cui deriverebbe il ‘peggior provvidenzialismo teologizzante’ non è, nel pieno del decennio del riflusso, un aficionado del postmodernismo come Jean-François Lyotard, ma il crociano (e gentiliano) di razza Guido Calogero, che stila un simile giudizio nella Nota alla presente traduzione delle hegeliane Lezioni sulla filosofia della storia (Vorlesungen über die Philosophie des Geschichte), risalente a un anno davvero ‘storico’, il 1941[1].

A un primo sguardo, le responsabilità hegeliane sembrano innegabili. È infatti Hegel stesso che, nelle Lezioni di filosofia della storia, ora ritradotte e rifuse nella Filosofia della storia universale, non si perita di ribadire che al di sopra delle singole vicende dell’umanità si colloca la ‘storia universale filosofica’ – in un modo per cui le vicissitudini umane mirano inconsapevolmente allo «stadio in cui lo spirito afferra sé stesso»[2].

Tuttavia, definire questo stadio un ‘provvidenzialismo teologizzante’ (o magari un fallogocentrismo ‘verticistico’) pare non solo ridicolmente riduttivo, ma pateticamente fuorviante[3]. Nelle Lezioni, risalenti al semestre 1822-1823, giusto due secoli orsono, Hegel è infatti inflessibile nel sottolineare la differenza tra Storia e Spirito: quest’ultimo non è il ‘soggetto’ della Storia, per il semplice fatto che per ‘soggetto’ non dobbiamo intendere «il momento primario […] iniziale, immediato», come se all’inizio ci fosse già un Qualcuno che ‘sa tutto’: al contrario, «il vero, è infatti soltanto il momento secondario, quanto è ritornato in sé». E, anticipando ogni critica a una concezione ‘lineare’ della Storia, aggiunge che l’idea che ‘usualmente’ ci facciamo del ‘ritorno’ (come di qualcuno o qualcosa che «esca [vada in un luogo e poi ritorni] […] al posto precedente»), è un’idea ‘sbagliata’ che ‘va respinta’[4].

Non c’è nessuno che guida qualcun altro, nessuno che conosca la strada, nessuna provvidenza manzoniana, ma neanche nessuna ‘grande proletaria’, nessun soggetto nomade, nessun rizoma, nessuna molteplicità così furba da sfuggire al suo destino. E il suo destino quale sarebbe? Precisamente questa è la domanda-catastrofe che si pone Hegel di fronte a quello che lui stesso, in una pagina celebre, ma poco capita, definisce senza mezzi termini ‘il banco da macellaio della storia’: «Ma, pure quando consideriamo la storia come un simile mattatoio, in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli stati e la virtù degli individui, il pensiero giunge di necessità a chiedersi a vantaggio di chi, e di quale finalità ultima siano stati compiuti così enormi sacrifici[5]».

Ciò che risuona nella domanda hegeliana, ha l’amaro sapore del sangue e della beffa[6]. Perché, per paradossale che sia, questo filosofo, ritenuto il paladino dello ‘storicismo assoluto’, è il primo a porsi un interrogativo tanto atroce e spiazzante: che senso ha la Storia, se non c’è nessun ‘ritorno’, se non c’è ‘casa’, se lo Spirito è un ammasso di sciagure, negazioni, massacri, e se la Storia stessa, lungi dall’essere un’‘opera d’arte’, è ‘uno dei più terribili quadri’? Lo Spirito non è una colombella che porta nel becco un ramoscello d’ulivo, ma uno zombie che procede insensatamente, anche quando lo decapiti, come i marinai morti-viventi dell’Olandese Volante in Pirati dei Caraibi.

Histoire(s) de l’art

Se Hegel riconosce che per comprendere la storia di un periodo o di un popolo occorre conoscerne l’arte[7], significa che anche l’Arte è una forma dello Spirito, ma solo nel senso di potenza che ‘dissolve tutto’ e ‘lacera le membra’ di cui la vita etica si compone[8]. La definizione di ‘mattatoio’ andrebbe pertanto applicata anche all’arte: anche l’arte è qualcosa di ‘spirituale’ nel senso ‘catastrofico’: «l’azione [artistica] è la ferita inferta alla terra quieta, è la fossa che, animata dal sangue, evoca gli spiriti deceduti, i quali, assetati di vita, la ricevono nell’attività dell’autocoscienza»[9]. È inevitabile dunque concepire la Storia come un’opera d’arte e intrecciare la storia dei popoli, degli eventi e delle culture con quella dell’arte, a patto di tenere bene a mente ciò che dobbiamo accogliere sotto la definizione di Arte.

Sarebbe interessante notare come proprio i lettori più sovversivi di Hegel, tra cui Georges Bataille, abbiano intuito che la sola risposta alla negatività storica sia la ‘negatività inutilizzabile’ dell’arte[10]. E forse, solo l’arte contemporanea, emancipatasi dal sensibile al punto da raggiungere vette di ‘autocoscienza dissolvente’, è oggi in grado di riflettere adeguatamente questo punto di vista estremo. Quando infatti si eleva a una visione più ampia di sé stessa, e tocca il divenire storico, si presenta come insieme nient’affatto ‘armonioso’ o risolto, ma appunto come insieme di spiriti/spettri [Geister] non-morti.

Il caso delle Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard è emblematico. Concepite inizialmente come una serie TV, costituiscono un’opera vasta e complessa, articolata in quattro sezioni, ognuna suddivisa in due parti, per una durata totale di quasi nove ore; non sono state proiettate come unico film ma ‘esposte’ per la prima volta in un contesto artistico (la Documenta 10 di Kassel del 1997), riproposte poi in forma di DVD e successivamente in volume. Composte da centinaia di frammenti di altri film, interpolati dalle scritte con parole del regista, assomigliano più a un enorme collage situazionista che a un capolavoro compiuto. In tal senso, pur avendo attirato l’attenzione di storici di professione, ad esempio François Furet[11], sono ‘compiutamente’ contemporanee: come ha confessato Godard, cercano di ‘inglobare tutto’ dato che «la Storia è l’opera delle opere», ossia «un’opera d’arte, cosa che generalmente non è ammessa, salvo che da Michelet»[12].

Il riferimento a Jules Michelet, allievo dell’hegeliano Victor Cousin e capostipite della storiografia francese nel XIX secolo, non è casuale. Le Histoire(s) effettivamente ambiscono alla rappresentazione della totalità storica, in senso hegeliano: la totalità̀ di cui si parla non è un insieme positivo contenente tutti gli elementi possibili, ma un ‘insieme negativo’, un tutto che paradossalmente si autoesclude da sé stesso, sopravvivendo in quanto frammento e mancanza[13].

Per questi motivi, le Histoire(s) sono qualcosa di radicalmente diverso da tutti i documentari e da tutte le ‘classiche’ storie dell’arte cinematografica[14]. In esseGodard appare più volte al lavoro con strumenti metacinematografici (registratori, computer, videocamere) e spesso utilizza frammenti di cinema, video e found footage. L’amalgama materiale del cinema emerge soprattutto nell’uso inatteso della moviola per disarticolare passaggi di film famosi, con il risultato non solo di rallentarne le immagini (al modo di Douglas Gordon), ma anche le scritte e il sonoro, ottenendo distorsioni quasi tridimensionali, tattili, fisiche; in taluni passaggi fa da schermo alle immagini il corpo del regista, che qui si offre simbolicamente ‘in pasto’ alla Storia e alle sue rappresentazioni[15].

Non è forse questa la realizzazione odierna più simile all’immagine hegeliana degli ‘spiriti deceduti’ della Storia, che cercano di tornare in vita attraverso l’autocoscienza?

Catastrofi e sovrimpressioni

Storia e Arte, o meglio storia e storia dell’arte, invece di essere ancora concepite come due insiemi di cui l’uno ingloba l’altro, o come pluralità acefale che ogni tanto si intersecano, andrebbero intese in relazione a questo fenomeno di ‘riattivazione’ del passato: «infatti, quando noi abbiamo a che fare con il passato […] si presenta per lo spirito il bisogno di un presente […] che non invecchia mai»[16].

Circa vent’anni fa, fece enorme scalpore la dichiarazione di Karlheinz Stockhausen, che aveva definito l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 «un’opera d’arte cosmica»[17]. Rileggendo però attentamente le sue parole, non si trova traccia di ingiuria, anzi, si può intuire come il compositore intendesse porre in inevitabile relazione evento storico e sua contro-effettuazione artistica. In altre parole, l’Arte non è affatto l’insieme delle rappresentazioni degli eventi, ossia la descrizione delle cose fatte – al contrario: le ‘cose’ non sarebbero ‘fatte’, gli eventi non sarebbero tali senza l’esposizione diretta del ‘banco da macellaio’ in cui la Storia consiste. Per una coincidenza sublime, che sarebbe stolto attribuire a un caso fortuito, Stockhausen aveva talmente ragione che in pochi, nei concitati giorni seguenti l’attentato, si accorsero che esso ‘era già diventato, a tutti gli effetti, un’opera d’arte’. Infatti, nel settembre 2001, Wolfgang Staehle aveva organizzato una personale nella galleria Postmasters a New York, consistente nella videoproiezione in diretta dei paesaggi di alcune città. Proiettate in grandi dimensioni (270 x 660 cm), come se si trattasse di panorami che, anziché essere dipinti, fossero semplicemente ripresi da live-cam, le immagini riguardavano Berlino, Coburgo e, fatalmente, lo skyline di Manhattan. La videocamera puntata sui grattacieli riprese perciò fedelmente il disastro delle due torri in diretta. Benché la mostra all’ora dell’attentato fosse chiusa, la gallerista Magda Sawon, avvisata dall’artista, poté osservare la tragedia all’interno di quella che fino a quel momento era solo una ‘innocente’ opera d’arte[18]. Ma né l’Arte, né la Storia, sono mai ‘innocenti’: Storia e Arte qui si sono letteralmente sovrapposte, o meglio, per usare un termine fotografico, sovrimpresse l’una sull’altra, generando il ‘presente’ universale in cui davvero il passato si rivitalizza, risorge, si ‘ripete’ ed è con noi, anche se in forma sempre irrisolta, enigmatica e spettrale. Proprio queste sovrimpressioni, dove le due linee della Storia e dell’Arte si contro-determinano, o si sovraimprimono a rovescio, sono l’unico autentico ‘presente-in-assenza’ da cui iniziare a imparare; e che dovrebbe spingerci a riscrivere il celebre adagio attribuito a George Santayana, secondo cui «chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo», in una nuova versione: ‘chi non vuole rivivere il passato deve ripetere il presente’.


[1] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, La razionalità della storia, trad. it. a cura di G. Calogero e C. Faita, La Nuova Italia, 1941, p. XIV.

[2] Id., Filosofia della storia universale. Secondo il corso tenuto nel semestre invernale 1822-23, a cura di K.H. Ilting, K. Brehmer, H.N. Seelmann, ed. it a cura di S. Dellavalle, Einaudi, 2001, p. 85.

[3] Si veda su questo punto Subject Lessons. Hegel, Lacan, and the Future of Materialism, a cura di R. Sbriglia, S. Žižek, Northwestern University Press, 2020, p. 23.

[4] Ibid., p. 28.

[5] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, cit., p. 68.

[6] Le invettive di Calogero sarebbero assai più adeguate quindi all’Esquisse d’un tableau historique des progrés de l’esprit humain di Condorcet (1795); o alla Storia economica e sociale dell’Impero romano di marxisti come Rostovtzeff (1933); o ai romantici ideologi del ‘ritorno’ come Novalis; o persino a letture che vorrebbero essere pluraliste, e finiscono nel liberalismo più ‘teleologizzante’, come quelle di Isaiah Berlin.

[7] G.W.F. Hegel, Filosofia della storia universale., cit., p. 81.

[8] Ibid., pp. 48 e 53.

[9] Id., Fenomenologia dello spirito, ed. it a cura di V. Cicero, Rusconi, 1995, p. 957.

[10] B. Baugh, French Hegel. From Surrealism to Postmodernism, Routledge, 2003, pp. 74-75. Bataille parla di «négativité sans emploi» in una lettera ad A. Kojève, l’autore delle celebri lezioni parigine su Hegel, a partire dalle quali pubblicò Introduction à la lecture de Hegel, Gallimard, 1947, trad. it. Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, 1996.

[11] F. Furet, Lettre(s) à Godard [1997], «Cahiers du Cinéma», 2000, 6, pp. 6-9. Furet (1927-1997) è stato uno dei maggiori storici della Rivoluzione francese.

[12] J-L. Godard, Y. Ishaghpour, Archéologie du cinema et mémoire du siècle. Dialogue, Farrago, 2000, p. 25.

[13] O, per dirla con Bertrand Russell – qui richiamato a proposito del paradosso che porta il suo nome – la Storia sarebbe «l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi».

[14] Si pensi a M. Scorsese, Il cinema secondo me, minimum fax, 2004.

[15] A proposito delle Histoire(s), Giorgio Agamben ha parlato di «potenza dell’interruzione»; cfr. G. Agamben, Difference and Repetition: On Guy Debord’s Films, in Guy Debord and the Situationist International. Texts and Documents, a cura di T. McDonough, The MIT Press, 2002, pp. 313-320.

[16] G.W.F. Hegel, Filosofia della storia universale, cit., p. 9. Un impressionante caso di ‘riattivazione’ fu il re-enactment della presa del Palazzo d’Inverno messa in scena a Mosca il 7 Novembre 1920, tre anni dopo la ‘vera’ presa del 1917; cfr. S. Žižek, Revolution Must Strike Twice, «London Review of Books», 25 luglio 2002, vol. 24, n. 14.

[17] «Frankfurter Allgemeine Zeitung» e «Nando Times», 19 sett. 2001: «Composer Karlheinz Stockhausen said in a German radio interview Monday that last week’s attacks on the World Trade Center were ‘the greatest work of art imaginable for the whole cosmos. Minds achieving something in an act that we couldn’t even dream of in music, people rehearsing like mad for 10 years, preparing fanatically for a concert, and then dying, just imagine what happened there’».

[18] Benché l’episodio abbia in sé qualcosa di miracoloso, attende ancora una ‘filosofia della storia’ e dell’arte capaci di interpretarlo; per una analisi provvisoria, rimando al mio saggio Il Ground Zero del godimento, in Scrivere sul fronte occidentale, a cura di A. Moresco, D. Voltolini, Feltrinelli, 2002, pp. 124-137.