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L’oggetto rovente

Una conversazione con Romeo Castellucci
Socìetas Raffaello Sanzio, Bn. #05 Bergen, 5° episodio della Tragedia Endogonidia, 2003; nell’immagine Maria Luisa Cantarelli, Archivio storico della Socìetas Raffaello Sanzio, catalogato e digitalizzato grazie al progetto A.R.C.H., foto Luca Del Pia

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Gian Maria Tosatti: Questo numero della rivista ha come tema guida il concetto di ‘popolare’. Ho pensato che volevo parlarne con te. In realtà vorrei affrontare l’idea di ‘tragico’, perché penso che niente sia più popolare della tragedia. Non solo perché è una forma che sopravvive da venticinque secoli, ma anche perché è il vero dispositivo di confronto di una comunità. Anche nel Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, quando il popolo schiacciato dai soprusi del fascismo vuole, per una volta, farsi sentire, ricorre al teatro in una forma, quasi ateniese, di rielaborazione di un trauma collettivo.

Romeo Castellucci: Ci sarebbe da discutere su questo.

GMT: Discutiamone.

RC: Partiamo dal fatto, allora, che possiamo dare alle parole valori differenti, sia quando diciamo ‘popolo’ (e quindi popolare), sia quando diciamo ‘tragedia’. Per come lo intendo io, ‘popolare’ è un aggettivo addirittura antitetico rispetto alla tragedia, proprio perché l’istituto tragico si fonda sull’individuo.

Sì, potremmo anche sostenere che il popolo – a cui io preferisco la parola ‘cittadinanza’ – sia costituito da individui, ma non possiamo non renderci conto che la tragedia nella sua verticalità si pone in contrasto con la democrazia. Essa trafigge come uno spillo, inchiodando ciascuno alla propria colpa individuale. E la colpa è quella di esser nati, di avere questo nome, di esser vivi in questo tempo, in questo luogo. La tragedia ci mette di fronte alla colpa di esistere, perché esistere significa anche fare male, fare del male paradossalmente agli altri.

GMT: Gli altri però, sono la comunità, la cittadinanza, il popolo. Sono, forse, il contraltare dell’eroe, ma sono appunto lo spazio del tragico, lo spazio in cui si consuma la colpa.

RC: Niente affatto. Quando la consapevolezza abissale portata all’eroe dal suo destino tragico lo raggiunge, viene sistematicamente allontanato dalla comunità. Egli è destinato a morire, da solo, fuori dalla comunità, fuori dalla città, anche se ne era il padrone. Viene ridotto al silenzio. Il suo linguaggio diventa il silenzio. E questo spossessamento apre un abisso che inghiotte anche lo spettatore, e gli pone un interrogativo provocatorio sul senso della sua cittadinanza.

GMT: Sono due piani differenti, ma compenetrati. Uno è il piano dell’eroe, quindi il piano interno alla tragedia, e l’altro è il piano dello spettatore, quindi il piano della comunità. Credo che sia la combinazione di questi piani la vera meccanica della tragedia.

RC: Sì, questo è vero, tant’è che, dal mio punto di vista, la tragedia si fa solo perché c’è una città. La tragedia nella natura non ha senso. La tragedia ha senso laddove ci sono dei conflitti, di ordine sociale, politico, religioso, etico. Il conflitto è alla base di tutto. Infatti, se è vero che il concetto di salvezza presso i greci non era concepibile, e quindi la tragedia vive in una dimensione immanente di condanna, essa resta un campo di lotta. L’eroe tragico è chiamato a un riscatto.

GMT: E questo è eminentemente politico. Ma lo è, appunto, in una prospettiva individuale che poi si allarga e diventa collettiva (quindi politica) quando l’individuo, dopo essere stato strappato al contesto dallo specchio fatale della tragedia, una volta terminato lo spettacolo, a rito concluso, torna a casa, torna a essere parte della cittadinanza, dello ‘stato’. Però, in quel breve tempo in cui stanno uno di fronte all’altro, nello spazio del teatro, il cittadino e l’eroe, chi sono l’uno per l’altro?

RC: Chi fossero all’epoca in cui la tragedia era viva, nell’Atene di Pericle, non possiamo saperlo. Possiamo fare delle ipotesi. Io che ho fatto il tentativo infantile e megalomane di ricostituire la tragedia, posso dire che l’eroe è stato lo specchio deformante del volto di ciascuno spettatore. E proprio perché deforma il volto in maschera, consente che vi sia il transfert, l’identificazione. Ci identifichiamo sempre con l’eroe, che è sempre la figura che incarna il male, colui che infrange le leggi.

GMT: Nell’Antigone, però, non ci riconosciamo nell’eroe negativo.

RC: Non è vero. Antigone è l’eroe negativo. Nasce da una coppia incestuosa, vive al di fuori della norma, ha questo marchio di infamia, e nella sua tragedia è lei che si pone al di fuori dalla legge. Nel contesto della tragedia è lei che rompe lo schema.

GMT: Hai ragione. Forse è la nostra cultura cristiana che ci mostra Antigone attraverso la lente della pietà e per questo non ce la fa riconoscere come negativa.

RC: Assolutamente. Cristo era il fuorilegge della sua tragedia.

GMT: Diciamo che è stato colui che ha scritto una nuova legge.

RC: Esatto, ma riscrivere è infrangere. Antigone non scrive ma inaugura un nuovo ordine morale. Si appella non alla legge, ma a qualcosa di più alto: la giustizia. E lo stesso fa Gesù. Non intendo fare paragoni, ma…

GMT: Beh, ma questo parallelo è già evidente nella nostra cultura. L’impalcatura culturale antica si regge sugli archetipi della tragedia attica, mentre l’età moderna si fonda su un nuovo archetipo, la figura di Cristo che incarna l’uomo nuovo, lasciandosi alle spalle quello antico. È un cambio di paradigma.

Ma appunto, queste riforme, di Antigone o di Cristo, trovano il loro punto di atterraggio nel popolo, chiamato a relazionarsi col trauma che loro incarnano. Perché il fulcro della tragedia credo non risieda nello spazio del teatro, ma proprio in quella strada del ritorno, quando lo spettatore se ne va a casa. È lì che la tragedia entra in soluzione col sangue attraverso la catarsi, che lo spettatore, tornando alla sua vita, prende la strada del suo destino con consapevolezza.

RC: Questa è una ipotesi, ma io sono molto attratto dall’idea di Benjamin, che contestava l’accezione classica della catarsi. Per lui la catarsi non era una purificazione, ma una scarica nervosa, una scossa elettrica che riversava nel dramma satiresco lo stress e l’angoscia accumulati nelle tre tragedie. Questo introduce all’idea che una risata, profondamente connessa a un’esperienza di morte, libera, ma solo in senso nevrotico, non spirituale, non salvifico. E d’altra parte la tragedia, secondo l’orizzonte filosofico dei greci, penso avesse in un certo modo a che fare con un piacere, quello di immergersi nel fango. Però è certo che quando lo spettatore tornava a casa portava con sé un dubbio. D’altra parte come si fa a provare la catarsi davanti a Oreste che viene giudicato ottenendo pari voti favorevoli e contrari? È un generatore di problemi la tragedia, non cerca le soluzioni, nessuno può dire chi avesse ragione. Oreste viene assolto solo perché il voto di Atena vale di più. Quindi la sua è una falsa assoluzione. Lo spettatore non se ne va pensando che Oreste sia innocente. Oreste è assolto, ma non innocente.

GMT: Questo è un punto nodale, Romeo, perché in realtà l’arte in generale, che è figlia della tragedia, deve sempre restituire il giudizio allo spettatore, perché la responsabilità di trovare soluzioni politiche è sua. La tragedia partecipa alla soluzione creando attorno ad essa uno stato di necessità che investe lo spettatore. Ma non può mai dire cosa sia giusto o sbagliato. Non può perché sono categorie impossibili per il logos. Esse trovano spazio solo nella praxis, nell’azione dell’uomo che si incammina verso il suo destino (e quello della sua comunità) con, nel sangue, il dubbio tragico.

RC: Infatti. L’arte non può mostrare il giusto, assolutamente. Un’arte etica è una contraddizione in termini. L’arte è estetica, è fuori dall’etica, si pone alla sua origine. Non è possibile fare un’arte edificante, un’arte corretta, politicamente corretta.

GMT: Se è stata sperimentata, un’arte così, è stato durante il nazismo.

RC: Infatti, l’arte che dà le risposte, l’arte che consola, purtroppo non è arte.

GMT: No, l’arte non consola. Me lo ricordo bene nella Tragedia Endogonidia, il tentativo con cui tra il 2002 e il 2004, tu, Claudia e Chiara (i componenti dell’allora Socìetas Raffaello Sanzio) avete provato a rigenerare l’istituto della tragedia nel presente.

A questo proposito, prima dicevi che preferisci la parola ‘cittadinanza’ alla parola ‘popolo’. Ma la Tragedia Endogonidia non si è svolta in una città, ha avuto corso, episodio dopo episodio, in un’area assimilabile all’intera Europa. Questo lo trovo interessante, perché, nel momento in cui un dispositivo culturale come la tragedia decide di riattivarsi nel presente, non riconosce più come suo spazio di riferimento (ovvero lo spazio che definisce la comunità politica che nella tragedia si specchia e si riconosce) la città, ma un’area più ampia, l’Europa. Che cosa voglio dire con questo? Che la tua tragedia ha rivelato l’evidenza di una circostanza politica che, invece, le nostre istituzioni non riescono ancora ad abitare pienamente. Voglio dire che nel momento in cui la tragedia, come dispositivo identitario profondo, pronuncia il nome della città a cui appartiene (e quindi della sua cittadinanza) pronuncia la parola Europa, e facendolo sancisce l’esistenza dell’Europa come entità politica.

RC: Su questo mi sento di darti ragione, anche se non è stato programmatico. Diciamo che quel che è accaduto e che tu noti rappresenta più un sintomo che una terapia.

GMT: Immagino bene che non fosse programmatica la tua scelta, però l’azione medianica del tragediografo – che in quel caso eravate voi tre –, ha sancito l’esistenza di una comunità sovranazionale, che corrispondeva a ciò che poteva essere Atene un tempo. L’Europa come Stato, e lo stato, quindi, come comunità culturale. È la sintesi che la politica, intesa come classe politica, non sta riuscendo a trovare da quarant’anni.

RC: Su questo non c’è dubbio, io credo che l’Europa in questo senso sia la nostra casa culturale. Se, invece, mi dici che è compito dell’arte e degli artisti fondarla, o fondare la città, non mi trovi d’accordo. Non è questo il nostro campo. L’artista lancia, però, all’interno di questo campo un oggetto rovente, che è un problema. Cosa ne faranno gli uomini è un punto cruciale, che però non riguarda già più l’artista.

GMT: L’artista è un po’ come Tiresia, non è responsabile per la profezia che pronuncia. E questo vale pur nel momento in cui sa che la stessa profezia ricadrà anche su di sé. E, forse, è perché l’artista non parla mai con la sua voce. Non dice mai parole sue.

RC: L’artista non parla con la sua voce. È vero. L’artista è uno che ascolta, che sta sempre in ascolto, è questa la sua condanna. Ma non interpreta la realtà, la restituisce tale e quale, per quanto deformata. Anzi la deformazione è la sua arte, è la sua super tecnica, ma, appunto, restituisce un sintomo, non è neppure una diagnosi, perché l’artista è un volto tra la folla, non è un prete, non è un sacerdote, non è una guida spirituale, non ne sa niente l’artista. E quindi si lascia attraversare, come giustamente dicevi anche tu, dalle potenze, come avrebbe detto San Paolo, si lascia cavalcare da altre forze, ma non ha un progetto. Anche la Tragedia Endogonidia non aveva progetto, andavo avanti un passo dopo l’altro. C’era una dimensione di oscurità, di perdita di controllo, in cui l’ascolto diventa necessario per mantenere l’equilibrio.

GMT: Ma appunto, non parlare con la propria voce significa lasciare spazio alla voce dello Zeitgeist. Sacrificarsi, sparire, per lasciare che sia lo spirito del tempo a rivelarsi. E non è questo il senso più profondo del popolare?

RC: Sì, può essere. Ma popolare è una parola che mi sta stretta. Perché viene da popolo, che conserva una radice identitaria, mentre la tragedia spezza le identità, le mette in crisi. È per questo che sento una contraddizione rispetto a questo vocabolo.

GMT: Ma lo scandalo in Tragedia Endogonidia era proprio questo: che era la tragedia del popolo europeo in un’Europa che non esiste.