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L’Identità diffusa
Appunti sulla relazione attuale tra filosofia e arti visive

Francesca Banchelli, Before the Name, 2016, performance, 44’, Barcellona, MACBA, a cura di Carolina Ciuti. Con Pier Luigi Tazzi, Anuwat Rattanaphan, Jonathan Lahey Dronsfield, Francesca Banchelli, Julie Cunningham, Harry Alexander, musiche originali Emiliano Zelada, foto Maria Rodenas

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I rapporti tra filosofia e arti visive sono sempre stati delicati. Iniziati ufficialmente a metà Settecento, quando Baumgarten inventò l’estetica[1], si sono complicati successivamente con l’avvento della linguistica, lo strutturalismo, la semiologia e l’ermeneutica. La filosofia è una forma di indagine razionale, tende a essere sistematica, riflette criticamente sui propri metodi e presupposti. L’arte sfugge, si reinventa, formalizza l’ambiguità, la probabilità e l’indeterminazione. Tuttavia, questa apparente contrapposizione si dissolve immediatamente, in quanto entrambe cercano di configurare e leggere la realtà, di essere elementi fondativi prima ancora che risolutivi, aprire «campi di possibilità interpretative»[2], sebbene attraverso approcci, metodologie e prospettive diverse.

Un legame che diventa spesso indissolubile e particolarmente fertile in entrambe le direzioni, soprattutto quando determinate analisi, urgenze o contesti specifici di ricerca si intrecciano. Non mancano gli esempi internazionali di questa attrazione quasi simbiotica tra i due ambiti lungo tutto il Novecento, ma colpisce in particolar modo l’interdipendenza che emerge prepotentemente nel contesto italiano. Marco Senaldi sostiene[3] come non ci sia filosofo nostrano che non abbia scritto d’arte, e come non ci sia artista italiano che non abbia flirtato con qualche filosofia, osservando quanto de Chirico fosse influenzato da Schopenhauer, Piero Manzoni avesse studiato l’esistenzialismo, e che Piero Simondo – il vero creatore del situazionismo – si fosse laureato con Abbagnano.

L’attualità non ha fatto altro che continuare questa tendenza di reciprocità, non sempre, purtroppo, con la lucidità necessaria per distinguere le sottili differenze alla base dei due settori. Nei saggi critici delle mostre, nei comunicati stampa, negli articoli sulle riviste specializzate, e persino negli statement degli artisti, non è raro trovare il nome di qualche filosofo e corrente di pensiero, spesso svuotata, banalizzata, per legittimare o giustificare una certa formalizzazione, appoggiarla su una base solida, nella speranza che diventi inattaccabile.

Divengono, invece, estremamente suggestive le situazioni in cui gli artisti sono travolti da un testo, pensiero, ideologia, facendolo proprio, assumendosi la responsabilità di assorbirlo, tradirlo, interpretarlo, per tradurlo nel proprio perimetro di riferimento. Il tentativo di quest’articolo è introdurre, seppur in modo non esaustivo, considerando la vastità dell’argomento, a una lettura della contemporaneità in cui si evinca, attraverso alcuni esempi, quanto negli ultimi due decenni sia stata proprio la ricerca sull’identità, sviluppata in campo filosofico, a condizionare, influenzare o determinare un’alta percentuale delle pratiche artistiche italiane, e come queste, a loro volta, siano riuscite a cucire le fessure rimaste aperte in ambito teorico.

In quest’ottica, possiamo constatare come nella maggior parte della filosofia contemporanea emerga, tranne in rare eccezioni, una destabilizzazione della soggettività, una mancanza di certezze e punti fermi nel contesto culturale in cui si trova a vivere, i cui primi indizi si possono rintracciare già nell’ermeneutica tedesca. Un’idea complessa e programmaticamente antinomica della soggettività in cui l’individuo interveniva e si sviluppava, nella propria esperienza, minacciato e sentenziato da un ‘noi’ consensuale e interpersonale. Una collettività senza soggetto, un gruppo senza membri singoli, in cui qualsiasi stimolo ed elemento individuale rischiava di essere nascosto, cancellato, etichettato tramite continue proposte di omologazione e strategie, studiate in particolare dai mass media, per influenzare idee e comportamenti dei destinatari[4]. Questa tendenza è stata in seguito ribaltata, ampliata, approfondita, dilatata, fino ad arrivare a un universo plurimo di correlazioni, in cui la filosofia ha dovuto aggiornare e rivedere le problematiche che hanno attraversato tutta la storia dell’essere umano, insieme all’obbligo intellettuale di entrare nel dettaglio, quasi con la lente di ingrandimento, su questioni sociali e culturali che si manifestavano per la prima volta.

Uno degli inneschi intellettuali con le maggiori ripercussioni si può trovare soprattutto a partire dalla metà degli anni Novanta, in ricerche che focalizzavano l’attenzione su una costruzione dell’identità che non poteva prescindere dall’alterità per costituirsi o svilupparsi, ma senza rinunciare alla sua autonomia ontologica. In tale contesto, uno degli scritti più noti è Essere singolare plurale[5] di Jean-Luc Nancy e, sicuramente, la sua lettura dell’intersoggettività è stata assorbita e reinterpretata da un cospicuo numero di artisti. Non credo sia casuale il fatto che negli stessi anni e nello stesso scenario nasceva l’arte relazionale[6], Community based art o arte partecipativa, come la conosciamo oggi.

In Italia, ma non solo, l’eco di queste teorie ed esigenze è ritornato ciclicamente in artisti per cui è fondamentale il rapporto con l’altro. Ad esempio, le azioni di Filippo Berta prevedono il coinvolgimento attivo di gruppi di persone, ponendosi su una dimensione collettiva generante situazioni e tensioni, che si traducono in immagini dal forte impatto visivo; la pratica di Marinella Senatore riconsidera la natura politica delle formazioni collettive, offrendo al pubblico l’opportunità di produrre cambiamento sociale; i tentativi di relazione di Enrico Vezzi si inseriscono e destreggiano sul confine che separa due individui, sciogliendolo per ricreare una nuova unità, basata sull’interazione e sull’incertezza del soggetto privato, che deve tenere conto di quello collettivo; altrettanto accade nelle ricerche relazionali e sociali di Silvia Mantellini Faieta, in cui l’opera si costituisce mediante un dialogo corale.

Altrettanto fondamentale per la filosofia contemporanea è L’essere e l’evento[7] di Alain Badiou, uno dei massimi pensatori viventi, che tratteggia un presente che non ha mai smesso di annunciare la propria fine. Essere ed evento costituiscono gli strumenti principali con cui Badiou ripensa i concetti cardine della storia della filosofia, e sviluppa un’ontologia del molteplice in grado di delineare una nuova teoria del soggetto. Su questa base si fonda il lavoro di Francesca Banchelli, per cui l’evento diviene il culmine del vuoto, del passaggio e della caduta, della rivoluzione. L’artista ha approfondito ‘l’incontro’ come atto rivoluzionario durante il quale, se considerato come linea retta tra due punti, questa contiene al centro la riformulazione o il ripensamento su come ci si possa avvicinare l’uno all’altro. Il testo di Badiou influenza anche il lavoro di Andrea Galvani, soprattutto quando approccia il linguaggio performativo, creando situazioni effimere in cui i grandi paradigmi diventano obsoleti di fronte alle micro-narrazioni frammentarie, isolate, marginali e velocemente dimenticate della contemporaneità.

Altri aspetti importanti di questo binomio, parlando di identità, riguardano invece l’analisi dell’identità culturale, il relativismo, l’integrazione, il multiculturalismo, il post-colonialismo, insieme ai vari nazionalismi, fondati sull’essenzialismo identitario, che stanno oggi guadagnando nuovo consenso. Fenomeno quest’ultimo da cui risulta essenziale ripartire per comprendere la dinamica in cui getta le fondamenta il termine identità[8]. Un tentativo di riscrivere la Storia, costruire contro-narrazioni, ripercorrere in un’altra prospettiva i diversi retaggi o tradizioni che ci definiscono. In questo ambito possiamo inserire le ricerche di Gian Maria Tosatti, che incentra il proprio lavoro sui concetti di collettività e memoria, nella loro valenza storica, politica e spirituale; Roberto Cuoghi, che sonda le nozioni di simulacro e simbolo, memoria e immanenza, devozione e superstizione, trasformazione e metamorfosi di corpo, identità, linguaggio e delle forme stesse di rappresentazione ed espressione; Luigi Presicce, che costruisce opere nelle quali il dato performativo convive in perfetto equilibrio con quello rituale e con la consistente stratificazione di rimandi culturali alla storia dell’arte e a personaggi e avvenimenti della Storia recente. Su una prospettiva diversa, ma non priva di intersezioni, Invernomuto indaga universi sottoculturali, utilizzando pratiche differenti, in cui l’idioma vernacolare fa parte di un percorso di avvicinamento e affezione alle culture orali e alle mitologie contemporanee, osservate con uno sguardo che desidera esserne profondamente contaminato e rigenerato; Rossella Biscotti, che invita costantemente i visitatori a una relazione attiva con la Storia. Una riscrittura della Storia che, nel caso di Diamante Faraldo, verifica come sia «il presente a generare dal suo interno il proprio passato e come il passato non possa sussistere indipendentemente da un presente che lo testimonia e lo redime»[9]. Il suo lavoro potrebbe essere letto quale dichiarata presa di posizione che rifiuta la ‘consonanza eucronica’ (la Storia come semplice processo continuo e omogeneo), per dirla con Georges Didi-Huberman, un tentativo di soffiare sulla polvere per risollevare, evidenziare e rimescolare ogni strato di Storia che l’Occidente e l’essere umano hanno accumulato su di sé.

La frequenza con cui storie collegate alla discriminazione, al post-colonialismo e alla xenofobia (varianti molto diffuse del mettere l’alterità in campo) sono presenti come oggetto d’indagine nell’arte, ci spinge a riprendere in considerazione il ruolo dell’artista come etnografo[10], evidenziando il pericolo del processo di appropriazione dell’alterità – del cosiddetto patronato ideologico – che avviene sovente nell’arte. Pochi riescono a superare tale limitazione, questo azzardo non scontato dello sguardo colonialista da parte di coloro che si avvicinano a un contesto diverso dal proprio nell’intento di studiarlo da un’altra angolazione. Tra questi Leone Contini, che si focalizza primariamente su conflitti interculturali, giochi di potere, migrazioni, diaspore e su quanto tutti questi fenomeni influenzino il contesto antropologico e il paesaggio botanico del luogo in cui si trova a operare. Similmente, la ricerca di Sergio Racanati si sviluppa all’interno di una moltitudine di relazioni, idee ed esperienze, affrontando la questione degli spazi del sensibile, dei processi comuni e comunitari con la creazione di spazi multidisciplinari, piattaforme di pensiero, modelli di pratiche antagoniste e spazi per nuove comunità.

Negli ultimi anni, le corrispondenze tra arti visive e filosofia sono state declinate attraverso tematiche che hanno impegnato il pensiero e le ideologie più contingenti. In primo luogo, non possiamo dimenticare il mai sopito interesse per le politiche femministe e per i testi di Judith Butler, Luce Irigaray, Donna Haraway, Carla Lonzi, Martha Nussbaum, Karen Barad, insieme a tutti gli studi sulla differenza, adattati al contesto delle arti visive. Nell’ottica della volontà di superamento del soggetto neutrale e di un’auspicabile decostruzione di modelli e dispositivi della società patriarcale, non si può non pensare al lavoro di Chiara Fumai, debitrice e in continuità con le filosofe sopra menzionate, in cui l’artista citava e manipolava gli scritti femministi, trasponendoli in una forma visuale e performativa che ne coglieva tutto il potenziale di libertà e trasformazione di sé e del mondo. Sullo stesso piano si colloca la poetica di Silvia Giambrone, prevalentemente incentrata sull’esplorazione della dimensione politica del linguaggio, nel suo rapporto con il corpo e con il potere nella formazione della soggettività, sottraendo per creare, attraverso un vuoto visibile, una definizione d’identità. La rappresentazione della donna, le questioni di genere, l’estetica queer-femminista sono alcune sfere comuni di ricerca all’interno dell’opera di Mara Oscar Cassiani. Relativamente all’urgenza di rivedere una concezione gerarchica o binaria del genere, uno dei massimi esponenti recenti è stato Paul B. Preciado, estremamente critico nei confronti del binarismo di genere, ma anche di ogni categoria creata per descrivere identità e comportamenti sessuali come qualcosa di collettivo, non soggettivo, individuale. Sulla scia delle tesi di Michel Foucault, Jacques Derrida e Julia Kristeva, la teoria queer mette in discussione la naturalità dell’identità di genere e dell’identità sessuale di ciascun individuo. Possiamo vedere nel lavoro di Ruben Montini una formalizzazione estrema di un punto di partenza condiviso, un’interpretazione della cultura queer e un’eredità delle rivendicazioni sociali degli anni Sessanta e Settanta, ma attualizzato e veicolato in prima persona. Allo stesso tempo possiamo scrutare nelle opere di Jacopo Miliani una narrazione aperta, in costante dialogo con lo spettatore riguardo argomenti come la costruzione dell’identità, la sessualità, la fluidità di genere, il rapporto tra le scelte personali e quelle imposte dalla società.

Si riconoscono linee di indirizzo ben precise nel rapporto tra arti visive e filosofia intorno al concetto di identità. Se da una parte rimangono invariati i temi che hanno attraversato la storia del pensiero, come quello della condizione egoistica nella costruzione dell’io, la relazione con l’alterità o la costruzione di un’identità collettiva, a prescindere dai parametri o dai limiti entro cui circoscriverla, negli ultimi decenni la problematizzazione dell’identità ha dovuto indagare nuovi aspetti, urgenze, necessità. L’archeologia del sapere ha lasciato spazio di indagine agli strati più recenti, a una concezione teorica degli aspetti sociali, politici e culturali nella definizione dell’identità a cui gli artisti hanno dato forma, riuscendo anche a delineare ulteriori orizzonti di ricerca, mai statica, oggettiva, definitiva di chi siamo.


[1] A.G. Baumgarten, L’Estetica, a cura di S. Tedesco, Aesthetica, 2000.

[2] U. Eco, La definizione dell’arte, Garzanti, 1984.

[3] M. Senaldi, L’arte in Italia è anche una questione di filosofia, «Artribune», n. 67, 11 settembre 2022.

[4] La bibliografia integrale sarebbe troppo estesa, ma è necessario evidenziare almeno i saggi di H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, 1986; E. Lévinas, Dall’altro all’io, Meltemi, 2002; J. Habermas, La condizione intersoggettiva, Laterza, 2007; N. Chomsky, Illusioni necessarie. Mass media e democrazia, Elèuthera, 1991; C. Dovolich, Singolare e molteplice. Michel Foucault e la questione del soggetto, FrancoAngeli, 1999; S. Natoli, Soggetto e fondamento. Il sapere dell’origine e la scientificità della filosofia, Feltrinelli, 2010.

[5] J.-L. Nancy , Essere singolare plurale, Einaudi, 2001.

[6] N. Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia Books, 2010.

[7] A. Badiou, L’essere e l’evento, Il melangolo, 1995.

[8] A.L. Espósito, Rappresentare l’alterità decostruendo l’identità, «Kabul Magazine», gennaio 2019.

[9] A. Alfieri, L’Angelus Novus: l’angelo redentore di Walter Benjamin, 17 aprile 2012, <https://www.fucinemute.it/2012/04/langelus-novus-langelo-redentore-di-walter-benjamin/>.

[10] H. Foster, L’artista come etnografo, in Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia Books, 2006.