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panorama

Stefano Canto

Roma 1974
Vive e lavora a Roma
Studio visit di Daniela Trincia

In un ampio e luminoso capannone, situato all’inizio di una delle strade immortalate da Pier Paolo Pasolini, Stefano Canto ha recentemente trasferito il suo studio. Dalla sua laurea in Architettura dei giardini, ha mutuato la sua analisi artistica che indaga sul rapporto uomo/architettura e sulla fruizione degli spazi. Dopo un inizio nel campo del design, attraverso la manipolazione o il riassemblaggio di materiali prelevati e recuperati dal quotidiano (si vedano i lavori della serie Allotropia urbana), dai primi anni del 2000 la sua attenzione è stata indirizzata definitivamente all’arte visiva.

Partendo dall’osservazione dell’ambiente e dalla vita che circonda ognuno di noi trae le forme dei suoi lavori. Oltre all’interesse per il rapporto artificio e natura, il punto focale della sua ricerca è esaminare l’aspetto nascosto dell’architettura (un esempio su tutti è Monumento a Theo van Doesburg), quello positivo (costruire), da contrapporre a quello meno positivo (guastare la natura). Analizzare la reciproca influenza che esiste tra l’uomo e l’architettura, simbolicamente rappresentata dal cemento, altresì emblema del progresso e sviluppo tecnologico del XX secolo. E per Stefano Canto, è proprio il cemento il materiale pressoché unico della maggioranza dei suoi lavori, ora anima, ora supporto, ora complemento di materiali organici raccolti durante i suoi spostamenti.

Con Archeologia dell’effimero, dove il ghiaccio incontra la polvere di cemento, Canto mette in discussione il concetto stesso di scultura. La contraddizione espressa nel titolo interpreta perfettamente l’idea di transitorietà (peculiare dell’epoca attuale), di smaterializzazione dell’opera, di anti-monumentalità e, parallelamente, suggerisce una visione di persistenza e stabilità. Provvisorietà rimarcata anche in Epoca n° 731, 736 (rivista pubblicata tra il 1950 e il 1997), dove unisce il processo di stampa con quello della fotografia: fissa per sempre, sul cemento, il contenuto della rivista, attraverso l’effettivo assorbimento delle notizie riportate sulla carta stampata da parte del materiale da costruzione; il risultato è un’immagine di cui è possibile percepire l’essenza e, al tempo stesso, la possibilità di dissolversi sotto i nostri occhi.

Lavorando per serie, prosegue la sua ricerca nelle diverse declinazioni di Archeologia dell’effimero, recentemente espressa nei lavori in cui ha poeticamente fuso cemento e alberi, superando definitivamente i confini esistenti tra naturale e costruito. Una serie che pensa di esaurire a breve. E per questo sta elaborando nuovi progetti, ancora bloccati nella fase embrionale di riflessione.

Le dimensioni, nonché il peso specifico, rendono i suoi lavori senza dubbio di non facile collocazione e maneggiabilità, tanto da renderli destinati solo a precisi spazi. Il loro essere sul limite di ciò che superficialmente può essere avvertito come residuo di design, nonché l’utilizzo di un materiale che è sigla anche di altri artisti, potrebbero spingere a osservare i lavori di Stefano Canto senza la dovuta attenzione. Perché mettere in discussione l’idea stessa di scultura, creare opere nelle quali sono racchiuse diverse tecniche, e anche tematiche contemporanee di indubbia importanza (come quella ambientale che, nota bene, è però un argomento di riflesso incluso nei suoi lavori, dacché la vita che lo circonda è il soggetto principe della sua produzione artistica), costringono ognuno di noi a riflettere sul proprio operato, sulle reali necessità, su come il nostro agire abbia effetti su quello che ci circonda. Ogni lavoro trasmette il corpo a corpo ingaggiato da Canto con i materiali organici che, nonostante tutto, nonostante l’uomo, riescono a trovare, comunque, il loro equilibrio. Un invito a guardare ciò che ci circonda come qualcosa di prezioso perché accogliente fin quando ci si pone in un armonioso rapporto di collaborazione.

Foto Luisa Galdo