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panorama

Stefania Zocco

Ragusa 1980

Vive e lavora a Londra

Studio visit di Daniela Bigi

Prima di incontrare Stefania Zocco per ragionare sui progetti che la stanno impegnando in questi mesi, mi è capitato di vedere degli interventi che ha realizzato recentemente in due spazi indipendenti siciliani. Uno a Palazzolo Acreide, su una grande vetrata al secondo piano della palazzina liberty in cui Davide Bramante ha fondato l’artist-run space San Sebastiano Contemporary; l’altro a Palermo, nel giovane La Siringe, anch’esso gestito da artisti. Faccio questa premessa perché Stefania vive a Londra da diversi anni, vi si è trasferita dopo l’Accademia per seguire un MA in pittura presso il Royal College of Art e ormai lavora lì, ma i suoi rapporti con la Sicilia sono rimasti invariati, continua a essere considerata parte attiva di quella comunità artistica, anche perché la sua esperienza di co-fondatrice, con Francesco Lucifora, del C.o.C.A. di Modica, il suo intervento – insieme a Sebastiano Mortellaro – nel glorioso Montevergini a Siracusa e altre battaglie analoghe condotte lungo il tempo, hanno contribuito a definirla come un’artista che, pur concentrata nello specifico di una ricerca legata alle relazioni tra corpo e paesaggio, coinvolge il proprio stesso corpo, la propria personale energia in progetti di portata collettiva.

La sua formazione nel disegno per l’architettura e nella scenografia e il suo interesse per la pittura hanno trovato un punto di incontro in una pratica incentrata sulla linea come strumento di conoscenza e di restituzione del paesaggio, che è il vero fulcro della sua indagine: come registrarlo, come prenderne coscienza, come leggerne gli elementi costitutivi, le criticità, come intervenirvi, come sentirsene parte. Un paesaggio che è inizialmente quello originario dell’abusivismo edilizio, della grande architettura barocca e degli ordinati appezzamenti agricoli, o quello delle scenografie teatrali e degli spazi espositivi, e che via via, seguendo il filo delle relazioni che il corpo intrattiene con il proprio habitat, è diventato il paesaggio che esprimiamo quando interagiamo con i dispositivi tecnologici.

In una serie di oli su tela appesi uno accanto all’altro su una parete dello studio – ma lo aveva già fatto sia a San Sebastiano Contemporary sia a La Siringe, seppure su scala e con materiali differenti – compaiono dei paesaggi astratti che altro non sono che la registrazione delle tracce che le nostre dita lasciano quotidianamente sugli screen dei nostri devices, raccontando molto, a nostra insaputa, delle nostre esistenze in rapporto alla tecnologia. Si tratta di una fitta rete di segni che nell’immaginazione dell’artista assume la forza di qualcosa di arcaico, come i rituali di quella magia domestica alla quale alcune donne, nel Sud, affidavano la guarigione delle malattie e la divinazione del futuro. D’altro canto, in sintonia con alcuni giovani filosofi, le interessa leggere il nostro rapporto con i dispositivi digitali come un affidarsi ai poteri dei metalli e dei minerali, alcuni anche rari, e questo assume ai suoi occhi i caratteri di una ritualità sconosciuta, che sente di dover indagare perché di fatto lì risiede il grosso del nostro presente.

Mi dice che lavorando preferibilmente con la pittura, le piace riflettere sul fatto che quando, tra non molto, il sistema touch screen verrà sostituito da altri più sofisticati e smaterializzati diventando irrimediabilmente obsoleto, l’antica tecnica artigianale della pittura a olio potrà ancora raccontare l’oggi, potrà testimoniare di quel sistema – o di qualsiasi altro successivo – per il fatto stesso di poterlo rappresentare, a conferma di come il corpo umano, con le sue abilità messe a punto lungo un percorso sconfinato, non può che continuare a costituire uno dei poli cardine nella dialettica con la tecnologia.

Trovo dunque che il senso del suo lavoro vada individuato proprio in questo indagare equilibri sostenibili, nel ricercare paesaggi autentici, che ci appartengano, tra memoria, Storia, corpo e tecnologia, tra l’idea che abbiamo di noi stessi e la verità di quello che stiamo diventando, senza fanatismi e senza moralismi. Il suo valore, oltre che nella spiccata originalità della sua pittura astratta, spesso site-specific, va individuato nel dialogo non esplicitato ma sostanziale tra gli elementi portanti di una visione mediterranea e certa fascinazione tipicamente anglosassone per il racconto antiretorico del quotidiano. È nella gestione di questo complesso equilibrio che si giocano sia i possibili rischi sia il grande potenziale del suo lavoro.