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panorama

Stefania Galegati

Bagnacavallo 1973

Vive e lavora a Palermo

Sudio visit di Daniela Bigi

Lo studio di Stefania Galegati sarà ancora per qualche mese in una stanza della sua abitazione. Poi ne uscirà «e diventerò come gli artisti-uomini, che hanno lo studio tutto per sé». Scherza, ma la battuta non è del tutto gratuita, ha a che fare con un percorso di studio e di condivisione del pensiero femminista che si è andato progressivamente radicando nel suo lavoro. 

Mentre parliamo è inevitabile ricordare alcune opere del passato. Ragioniamo sui fili che le connettono alle esperienze successive, dai video con i caterpillar, o con i due ex partigiani che si ritrovano e si amano, alle serie di quadri con i bunker, con le bandite, e poi gli zoo, i pirati, fino ai monumenti al cadere e ancora oltre. «Quello che probabilmente c’è sempre stato nei miei lavori è cercare il dietro delle cose», mi dice. E forse c’è sempre stato anche il muoversi su più piani, l’affiancare pratiche differenti, che se da una parte mette in salvo dalla ripetizione routinaria di gesti e contesti, dall’altra asseconda una precisa necessità di spostare, ampliare, moltiplicare le angolazioni da cui affrontare la realtà, quella solare così come quella in ombra. C’è un occhio fotografico, o forse filmico, che registra e interroga ininterrottamente il manifestarsi delle cose e c’è un corpo-orecchio che ascolta, complice, il dipanarsi di storie singolari e di vicende collettive. Il paesaggio è precario, il registro è antieroico, ma c’è una spinta resistente; c’è il progetto, c’è il sogno.

Mentre ricordiamo alcuni dei suoi quadri, mi racconta della stretta relazione che li lega agli studi in cui sono nati, dagli zoo con le prospettive distorte che presero vita nel corridoio stretto e lungo di una casa di Harlem, alle tele con i banditi che furono realizzate nel locale caldaia di un bel palazzo di Fortgreen, a Brooklyn. Certo, l’ironia è un tratto distintivo dei suoi racconti oltre che della sua poetica, e credo che oltre che nei suoi natali romagnoli, che magari giocano anche un ruolo, se ne possa cogliere l’origine nell’adesione a quella tradizione novecentesca utilizzata come strumento incisivo e di alta precisione per prendere le distanze da tutti i terreni troppo certi, da tutte le deduzioni troppo meccaniche.

Negli ultimi tempi, insieme ad altre donne riunite nell’associazione Femminote, sta portando avanti l’ambizioso progetto di acquisto dell’Isola delle Femmine. Alla base c’è un meccanismo economico, gestionale e simbolico molto coesivo, che Galegati affianca con una produzione parallela e solitaria. Nel complesso, si potrebbe parlare di un progetto-manifesto, che sintetizza le sue scelte e le sue urgenze di questi anni, e cioè da una parte la dimensione gioiosa della reciprocità, della mutualità e della complicità militante, dall’altro la concentrazione su un ciclo pittorico che diventa una sorta di disciplina in cui far convergere tre dimensioni centrali della sua operatività, la pittura, la scrittura e la pratica partecipativa. È come se il respiro singolare si accordasse con quello corale, il tempo privato con quello condiviso, l’impegno individuale con quello comunitario, il sogno a misura di stanza con il sogno a misura di natura. Costituito da decine di ritratti dell’isola, organizzato e scandito intorno alla trascrizione de Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, che l’artista legge per la prima volta mentre lo trascrive sulle tele, questo corpus ha un ampio respiro («sono arrivata a pagina 400, ma il libro è di 800 pagine»), richiede un tempo lungo, dilatato. E ha un valore che si commenta da solo.

Ci spostiamo su due progetti recentissimi, costruiti ciascuno a partire da un’azione partecipata che poi diventerà un film. Il primo si basa sul condividere i saperi e si è svolto con un gruppo di detenute della Casa Circondariale Pagliarelli (in collaborazione con dottorandi dell’Università di Palermo e con Chiara Agnello per il progetto GAP – Graffiti Art in Prison); l’altro, La fila lunga, condotto per BAM insieme all’artista greca Efi Spyrou, ha visto un folto gruppo di persone mettersi in fila senza attendere alcunché. Al centro del ragionamento abbiamo dunque da un lato il fare insieme, insegnando e imparando reciprocamente, e all’opposto un massiccio non fare, comunque insieme (a nessuno sfugge, suppongo, il valore semiotico dell’essere in tante, in fila, in una piazza, silenziose, in attesa).

Chiudo: Galegati porta avanti con costanza il suo disegno non lineare che credo si possa ancora simbolicamente sintetizzare nell’Amazzone del 2005. Il suo procedere si gioca fin dagli inizi su un crinale deliberatamente impervio, che richiede la massima attenzione per garantire il giusto ritmo e i giusti pesi al coesistere dei piani convergenti del discorso. Ritengo sia una delle sue sfide. Per il resto, direi che il cuore del suo lavoro pulsa alacremente, con slancio immutato.