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panorama

Silvia Giambrone

Agrigento 1981

Vive e lavora a Roma e a Londra

Studio visit di Daniela Bigi

Lo studio di Silvia Giambrone si trova al Pigneto, una di quelle zone popolari di Roma che da decenni ospita gli studi degli artisti e oggi è riconosciuta a tutti gli effetti come un polo culturale cittadino. Per quanto l’origine e la prima formazione di Silvia si situino nella Sicilia della Valle dei Templi, la sua attività ha da subito fatto parte del tessuto romano, forse perché vi ha frequentato l’accademia, oppure perché ha sempre partecipato alla vita della città, tra mostre, amicizie, gallerie, esperienze no-profit. Le sue performance, dure, con le palpebre appesantite dalle ciglia di piombo o con il colletto di merletto cucito sulla pelle – siamo alla fine degli anni Zero – possono essere considerate parte integrante di uno dei percorsi di lettura della storia artistica romana.

Il suo lavoro viene ascritto all’ambito della ricerca e della pratica femminista (e bisogna riconoscere che la sua dedizione allo studio del pensiero femminista data molto prima della diffusa tendenza in atto). Le sue riflessioni sui simboli del potere patriarcale hanno assunto lungo il tempo i caratteri impermanenti dell’azione ‘sul’ o ‘con’ il corpo ma anche le forme artigianali del collage, della scultura, della manipolazione dell’oggetto. Del cucire, del ritagliare, del trasformare, del corrodere. La sperimentazione sulle forme, sulle tecniche, l’esplorazione dei materiali, l’interesse per il portato estetico dell’opera hanno un peso significativo nella sua prassi concettuale e, a pensarci bene, la medesima attitudine la troviamo nella cura che rivolge alla parola, che sia letta, interpretata, scritta, trascritta.

L’universo simbolico di Giambrone è fitto di rimandi letterari ed esperienziali alla storia femminile collettiva, che sente di dover ancora raccontare, indagare, magari con sguardi nuovi, provando a schivare l’ortodossia. Muovendosi tra le opere del suo studio, ripensando parallelamente alle sue performance e ai suoi corti, ci si immerge nell’atmosfera materiale e immateriale di un mondo domestico problematizzato. Il focus si appunta sulle relazioni, sulla violenza che le ha pervase e che spesso ancora le pervade; la questione che più la coinvolge – ribadisce – è l’addomesticamento al potere patriarcale, la latenza di valori e comportamenti che sfuggono alla consapevolezza. Siamo in un “terrain vague” tra fascinazione e svelamento. Se il primo livello del discorso appare di immediata comprensione, affiora poi la parte più interessante che risiede, a mio avviso, nell’ambiguità incalzante che interroga, complica, oscura, destruttura. C’è tensione.

Parliamo a lungo. Ho bisogno di capire quanto il suo scavo risponda ancora, effettivamente, a una necessità e percepisco la sua determinazione, comprendo che la sua urgenza personale si intreccia con una rinnovata urgenza sociale, da studiare nei retaggi, sì, ma soprattutto nei suoi nuovi codici.

Ragioniamo sul lavoro per la Sala degli specchi della Reggia di Versailles, commissionatole da Dior. Nel luogo per eccellenza del potere che si autocompiace, i suoi specchi non riflettono, sono interamente ricoperti di cera e attraversati da spine di acacia che aggettano aggressivamente verso chi guarda. Per queste spine, che ricordando l’iconografia cristologica rimandano inevitabilmente alla semantica della tortura, del dolore, introduce in realtà il concetto di selvatico. Quegli specchi espropriati della funzione riflettente puntano dritto alla questione dell’immagine, del suo potere, dei suoi servigi. E il selvatico aggiunge una prospettiva ulteriore, che stimola livelli di lettura meno frequentati.

Nello studio trovo parecchi specchi, di tante dimensioni, una specie di selva di spine che produce un effetto corale, pulsante di rabbia e di bellezza, di disagio e di mistero, di sofferenza e di lusinga, così come tragicamente morbido è l’incontro tra i pattern rassicuranti delle copertine per bambine e le frasi ricamate che vi campeggiano nel centro, tratte da un manuale di suggerimenti per la difesa dallo stupro.

A proposito di violenza e di addomesticamento, mi anticipa il lavoro che ha in cantiere per un museo milanese. Lo spunto, come sempre, è autobiografico, ma l’esito si discosta da quanto abbiamo visto fino a oggi. C’è una continuità tematica e di postura, c’è la stessa militanza poetica e la medesima metodologia di studio sociologico e filosofico, ma c’è anche un passaggio coraggioso, che mi conferma come i diversi premi ricevuti di recente non abbiano assolutamente minato l’autenticità della sua ricerca e della sua spinta a condividerla.