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panorama

Serena Scapagnini

Roma 1983

Vive a lavora a Roma

Studio visit di Nicolas Martino

Serena Scapagnini ha studiato semiotica e storia delle religioni alla Sapienza di Roma, e ha proseguito gli studi in storia dell’arte medioevale all’Università di Siena. Parallelamente alla formazione teorica ha completato la sua formazione artistica all’Università di Paris 8 (Vincennes) – sede universitaria che vanta un’importante tradizione d’avanguardia avendo avuto tra i suoi docenti Jean-François Lyotard e Gilles Deleuze – e alla School of Visual Arts di New York. Dal 2012 ha iniziato a collaborare con il centro di ricerca sulle neuroscienze dell’Università di Yale.

Tutti questi diversi interessi, che tengono insieme immagine, filosofia, religione e scienza, si sono integrati in una pratica artistica che indaga la connessione funzionale tra le cellule, ovvero le sinapsi, nel tentativo di cogliere, attraverso l’uso di videoinstallazioni, ma anche del disegno e della pittura, il segreto delle misteriose alchimie attraverso cui prendono forma il pensiero e la coscienza umane. Un lavoro difficile, sia nella sua fase progettuale, che rimane sempre legata al dato scientifico, sia nella restituzione, che cerca di tradurre poeticamente un processo biologico. Quello di Serena Scapagnini è un lavoro che si segnala per la capacità, invero rara, di tenere insieme ambiti di ricerca diversi, mostrando concretamente come la divisione tra cultura umanistica e cultura scientifica non abbia ragion d’essere, e ancora più profondamente e significativamente, mostra come la ricerca scientifica, nel suo procedere, sveli verità che da sempre sono celate nel linguaggio poetico delle religioni, ovvero svela quanto ciò che è antico – e per molto tempo si è ritenuto di dover superare in quanto prodotto della superstizione e di un rapporto non scientifico con il mondo – sia incredibilmente attuale. La scienza stessa, man mano che ha superato molti dei suoi pregiudizi positivisti, apre scenari che rimandano alla parola poetica, e quindi all’arte, alla capacità di indagare la realtà in alleanza con altri saperi. Chi può dire la meraviglia del mondo se non un poeta conscio della bellezza che si nasconde in una formula matematica? E quindi, chi può raccontare la magia del nostro pensare e del nostro sentire se non un artista che abbia anche una formazione scientifica? In questo senso la pratica artistica di Scapagnini rimanda ad altre epoche, al Rinascimento, in particolare, quando l’artista era anche un filosofo e uno scienziato (a volte anche un mago e un ingegnere), una condizione che nella ristrutturazione dei saperi che attraversiamo da alcuni decenni sta ridiventando sempre più comune.

Mentre visito il suo studio, l’artista mi racconta il nuovo progetto a cui sta lavorando: dopo aver studiato ed esposto in giro per il mondo, torna in Italia, e a Roma in particolare, con un progetto site specific per la Fondazione Volume, a cura di Mario Codognato, che inaugurerà il prossimo 30 novembre, seguito subito dopo, il 4 dicembre, da una mostra da Erica Ravenna che rappresenterà un ulteriore sviluppo dell’installazione pensata per gli spazi di Francesco Nucci. Questo prossimo doppio appuntamento romano si può considerare come il punto d’arrivo di un lavoro avviato ormai dieci anni fa – al 2012 risale l’avvio della sua collaborazione con la facoltà di medicina di Yale – ed è quindi uno dei più importanti del suo percorso artistico. Un’installazione toroidale immergerà il visitatore dentro il dispositivo connettivo fatto di neuroni e sinapsi, insieme a una serie di disegni realizzati su carta preparata appositamente dall’artista. Mentre me ne parla mi viene in mente la metafora buddista della rete ingioiellata di Indra, con la quale si esprime l’universale interdipendenza di tutti i fenomeni, fuori e anche dentro di noi, una metafora che oggi sembra particolarmente adatta a raccontare la nostra condizione al tempo dell’Antropocene.

Probabilmente il lavoro di Serena Scapagnini dovrebbe trovare più occasioni di essere visto in Italia, ma questo dipenderà anche dalle sue scelte. E questo non lo si dice certo per un qualche particolare attaccamento allo stivale, ma semplicemente perché sarebbe un peccato se questa attitudine ‘rinascimentale’ non venisse adeguatamente apprezzata proprio lì dove, in altre epoche, ha avuto modo di svilupparsi.