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panorama

Sarah Ciracì

Grottaglie (TA)
Vive e lavora a Milano
Studio visit di Lorenzo Madaro
25 luglio 2024

         

Negli anni Novanta, attraverso la pratica di differenti media, Sarah Ciracì ha portato avanti una riflessione sistematica e lucida sull’immaginario tecnologico in trasformazione proprio in quel torno di anni. Già nei primi anni di attività le mostre sono state tante. Tra le più importanti Campo 6, a cui partecipa a ventiquattro anni nel 1996, a cura di Francesco Bonami alla Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino, su progetto della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, in compagnia di Maurizio Cattelan, i fratelli Chapman, Thomas Demand, Gabriel Orozco, Philippe Parreno, Sam Taylor-Wood e altri nomi fondamentali per quel decennio. Tre anni dopo è alla Quadriennale di Roma e nel 2004 Katerina Gregos cura la sua personale al MACRO. Tra le mostre recenti, Technocentric, personale da Ipercubo a Milano tra gennaio e febbraio 2022.

Il suo lavoro, soprattutto quello degli anni Novanta, si è distinto per una capacità rara di osservare la tecnologia senza rischiare mai che diventasse pura tecnica di base della propria opera, ma al contrario punto di partenza per riflessioni complesse sul proprio tempo. Sin dai tempi dell’università a Bologna, Ciracì ha sempre portato avanti una costante ricerca di natura teorica, che ha poi approfondito durante i suoi anni di dottorato di ricerca e poi anche in tempi recenti, grazie ai suoi insegnamenti alla NABA di Milano. Quando, durante gli studi, l’artista ha cercato di comprendere quale dovesse essere il focus della propria indagine, ha subito capito che bisognasse individuare temi legati ai suoi tempi, ovvero a ciò che esisteva in quel determinato momento e che contestualmente non esisteva prima. “Ovviamente” – come mi ha raccontato durante una nostra recente conversazione – “la tecnologia era ciò che distingueva la mia infanzia dal passato dei miei genitori, ovvero l’immaginario che la tecnologia aveva inculcato al mondo”. Rielaborare e restituire l’oggetto tecnologico per lei è sempre stato un processo destinato alla sua stessa riattivazione. Perciò in diverse opere concepite tra i Novanta e gli anni Zero esplorava lo spazio del cinema di fantascienza, sempre mixato con riflessioni di natura filosofica, anche perché il suo lavoro a guardarlo oggi in questi primi trent’anni di impegno è decisamente legato a un viaggio che è anzitutto mentale, oltre che reale, visto che ha sempre viaggiato molto per lavoro, con permanenze lunghe, come nel caso di New York dopo gli studi e a Milano sotto la guida di Alberto Garutti.

Osservando oggi opere come le trivelle del 1996 all’epica mostra Campo 6 – Gillo Dorfles scrisse non a caso che era tra le opere più riuscite di tutto il progetto espositivo – comprendiamo come il lavoro di Sarah Ciracì, anche quello più datato, sia sempre pregnante, anche nel presente. Ci ha sbattuto in faccia, quest’artista, senza entrare mai nella retorica del documentarismo, quali declinazioni, quali fascinazioni e quali visioni la tecnologia è capace di inculcarci modificando non soltanto il nostro habitat ma anche, chiaramente, noi stessi. Oggi, che tutto questo è basilare in ogni tipo di riflessione di natura concettuale ma anche antropologica e scientifica, bisogna riconoscere che Ciracì ha avuto un ruolo sostanziale nello sviluppo di questo tipo di riflessioni nell’arte italiana di quegli anni. Se nel passato la tecnologia – pensiamo ai Sessanta – aveva sempre un valore utopico, la sua opera del 1996 evidenzia un’inquietudine inaspettata.

Girovagare sul suo sito – ormai un vero e proprio archivio da quando l’ha messo su assieme a un trio di suoi bravi collaboratori di studio: Riccardo Bagnoli, Anna Ruotolo e Francesca Petretti – oggi ci consente di assorbire anche una forma sottesa di coerenza tra i percorsi, che allo stato attuale riguardano anche riflessioni sulle neuroscienze, come emerso dalla bella mostra milanese da Ipercubo.

L’elemento postumano, derivante da un intreccio costante tra uomo e tecnologia, è alla base di tutti i lavori più recenti, che da un lato ricalcano la sua attitudine da studiosa anche rispetto al mondo degli umanoidi (che sono al centro di altre opere, anche di alcuni anni fa) ma soprattutto al valore sacrale che oggi la tecnologia ha assunto nel reale. E allora trasformare i cieli boettiani densi di intelligente e raffinata leggerezza in cieli densi di dispositivi di controllo e accumulo di dati sensibili vuol dire farci osservare da vicino, anche attraverso il paziente uso della penna a biro (e quindi dell’utilizzo lento, quasi sacrale, del segno), cosa la tecnologia sta portando al nostro tempo in divenire: i satelliti oggi collegano terra e spazio, annientando completamente quel mistero che un tempo l’uomo avvertiva rispetto a ciò che era altro da sé e dal nostro sistema solare. E poi c’è questa nuova dimensione del fare, del fare a mano (affidandosi alle mani sapienti degli artigiani di Grottaglie) su suo progetto, che è una novità sostanziale di tutto il suo fare.

Osservando tutto questo, con i lavori nati dal 1996 ai giorni nostri nel suo studio di Milano e in giro per progetti site-specific, dall’Italia a Tokyo a mille altre situazioni, il percorso di Ciracì, silenzioso e rigoroso – declinazioni che le appartengono per indole –, ma anche visionario e colto, penso sia tra i più sostanziali e realmente coerenti dell’arte italiana (ammesso che possa esserci una categoria così definibile) di questi tre decenni. Ma non soltanto per i temi, anche e direi soprattutto per l’approccio metodologico che di volta in volta ha praticato, senza mai indugiare troppo, soprattutto in certi anni molto intensi, su cicli che sembrava funzionassero anche sul mercato. E allora oggi, a distanza di tanti anni e tenendo conto del suo impegno in corso, credo che nel suo caso sia assolutamente adeguato parlare di ricercatrice.