Roma 1979
Vive e lavora a Roma
Studio visit di Marco Trulli
La ricerca di Sara Basta è incentrata su pratiche che indagano la relazione tra persone all’interno di contesti privati e pubblici, sempre nell’ottica di far emergere narrative comuni. Nel suo percorso di lavoro ha esposto presso fondazioni e spazi espositivi no profit, in Italia e all’estero, e preso parte a diversi progetti di natura pubblica, tra cui Magic Carpets, promosso da Latitudo Art project al Trullo, a Roma.
Ha vissuto alcuni anni in Finlandia dove ha iniziato, di fatto, a interessarsi alla relazione dell’arte con la sfera pubblica. La sua ultima mostra personale è La prima madre, al Pastificio Cerere, a cura di Cecilia Canziani e Costanza Meli. Insegna Storia e modelli dell’arteterapia all’Accademia di Belle Arti di Roma.
Incontro l’artista nel suo studio a Torpignattara, periferia romana, un grande spazio che condivide con il duo Grossi Maglioni.
Il lavoro di Sara Basta è un processo continuo di scambio che si sviluppa in forme laboratoriali, collettive, attraverso la costruzione di spazi di collaborazione non competitivi. Agire nel territorio della co-creazione per Basta è un modo per superare la relazione dicotomica tra autore e pubblico, attivando forme di interazione che aprono a modalità diverse di produzione delle opere, in cui l’artista attiva un processo di cui non ha il completo controllo. Lo spazio della relazione è un campo di indagine che apre traiettorie imprevedibili, che l’artista elabora in maniera dialogica e, spesso, anche ludica. Proprio sulla perdita di controllo è basata la serie di lavori Quello che non vedo, autoritratti che l’artista esegue a occhi chiusi, andando oltre la rappresentazione e cercando nella memoria visiva immagini di sé. L’indagine sulla memoria corporea, psichica ed esperienziale è il tratto distintivo della sua ricerca, che la porta a costruire narrazioni intime eppure di valenza universale, che attengono alla nostalgia, alle trasformazioni della crescita, alle pratiche di cura reciproca.
Attraverso il cucito Basta realizza mascheramenti, abiti ma anche strutture abitabili che riflettono sulle relazioni tra storie, luoghi e abitanti e, spesso, indagano il legame affettivo come vincolo, nodo tra identità differenti che unisce e costringe. La relazione tra madre e figlio è una dimensione di indagine fertile per l’artista, che investe in primo luogo il corpo e l’esperienza personale. Torna spesso nel suo lavoro il tema del rifugio materno, della mamma come primo luogo abitato dall’essere umano, ma anche l’esplorazione del desiderio infantile di nascondersi, di costruirsi una tana che l’artista realizza con strutture in stoffa. Il nascondimento, il gioco e il mascheramento sono dispositivi di interrogazione delle trasformazioni del corpo e delle identità che l’artista esercita e problematizza continuamente. Ad esempio, nella serie Antenate, realizza maschere che riattivano memorie corporee, o inconsce, che in qualche modo ricompongono storie familiari e inquiete. La tensione continua della sua ricerca, tra il corpo singolo e quello collettivo, non è un rito comunitario pacificato ma un ambito di interrogazione complesso, in cui abitano gioie e sofferenze che disegnano maschere, tessuti, parole ricamate.
In questa fase, l’artista sta tornando più intensamente alla pittura e all’utilizzo di pigmenti naturali su tessuti, sperimentando colorazioni e scritture, inventando linguaggi ispirati alla natura. Il rapporto tra la natura e le forme e le gestualità affettive che si manifestano nei rapporti genitoriali ed educativi, sono al centro di un nuovo lavoro collaborativo che sta realizzando con il nido comunale di Viterbo per Cantieri d’arte, dove, con genitori ed educatori, sta cucendo un manifesto della cura, realizzato collettivamente.
Queste modalità di lavoro nascondono il rischio apparente di incorrere in ripetizioni, ma la preparazione dell’artista sui temi dell’arte come pratica terapeutica consente di spaziare in maniera ponderata, attivando per ogni situazione risorse nuove, immaginari e strumenti diversi. Un lavoro intensamente pubblico e comunitario che tesse insieme luoghi, relazioni e storie, che sovverte i ruoli generalmente predeterminati nella fruizione e nella realizzazione dell’opera d’arte e che, proprio per questo, attiva narrazioni circolari in grado di ricucire il discorso interrotto tra arte e vita.