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panorama

Ruben Montini

Oristano 1986

Vive e lavora a Torino

Studio visit di Elisa Carollo

La pratica di Ruben Montini è incentrata sulla performance, individuale o collettiva, e su un’idea di arte come corpo attivo, elemento dinamico di possibili trasformazioni personali e sociali «conduttore di energia ed esperienza» (Denis Oppenheim) per affrontare preoccupazioni politiche, intime o estetiche. Molti dei suoi lavori vedono per questo il coinvolgimento in prima persona dell’artista, che fa del proprio corpo il medium principale, in linea con un una tradizione di arte performativa di resistenza legata a rivendicazioni identitarie che si manifesta a partire dagli anni Settanta.

In particolare Montini è fra i pochi artisti in Italia che porta avanti rivendicazioni specifiche legate all’identità queer e alla sua dimensione e accettazione all’interno della società. Ma il suo corpo di lavori si espande poi anche a coinvolgere temi politici più ampi, come la serie di attivazioni collettive sulla fragilità dell’identità europea, diventate ancora più rilevanti nell’ultimo periodo.

Anche quando Montini lavora con i tessuti, l’atto del cucire e ricamare sono importanti soprattutto come gesti simbolici più che materiali, come azioni di riconciliazione intima e personale, o riconnessione collettiva.

Al momento della nostra visita Montini si dichiara in una fase di liberazione progressiva rispetto alla rigida formazione ricevuta: il colore è diventato molto più presente, e per la prima volta la scultura ha iniziato a inserirsi nella sua pratica. Complice di questa liberazione anche il trasferimento nel contesto particolare di Barriera Milano a Torino: un quartiere complesso, sebbene ricco di arte; un luogo di contaminazione di culture, a contatto con la dura realtà delle esistenze parallele di tanti immigrati irregolari. Uno dei primi esiti di questa liberazione è la sua recente opera esposta alla Fondazione Minitextile di Como: una coccarda dedicata agli amori di serie B e agli amori inesistenti, le relazioni non riconosciute fino in fondo; una struttura totemica fatta di tanti tessuti, in cui si inseriscono anche stoffe ‘straniere’ recuperate nel quartiere, in una composizione vibrante animata da questa contaminazione e da una speranza di possibile integrazione di tutte le identità considerate di serie B all’interno del tessuto sociale.

Un’esplorazione più intima del medium scultoreo è iniziata però a partire dal recente riadattamento della sua performance del 2015 al Museo Ettore Fico di Torino: un lavoro sulla perdita del corpo amato che inscena un tentativo estremo di rimaterializzarlo in argilla e aggrapparsi a esso in un abbraccio disperato, destinato però a crollare per la fragilità di mera illusione e ricordo. Nel creare la nuova struttura Montini ha scoperto come la scultura si comporta come un corpo a cui prestare attenzione: ogni gesto del plasmare influisce sulla forma finale e crea nuovi instabili equilibri, rivelando la pratica scultorea come molto vicina alla performance.

Principale punto di forza dell’opera di Montini è l’autentico coinvolgimento sia fisico sia emotivo dell’artista, che annulla ogni distanza fra arte e vita: il corpo è spesso presente in una dimensione provocatoria o sottoposto a un volontario martirio, attivando negli spettatori relazioni e reazioni e talvolta richiedendone il coinvolgimento. D’altra parte, le tematiche trattate e la dimensione talvolta sovversiva delle sue opere, che non disdegna anche un certo masochismo, rendono la pratica di Montini non sempre digeribile da parte di tutti, soprattutto in un paese come l’Italia che fatica ad accogliere pratiche così crude e dal respiro più internazionale.

Foto Ela Bialkowska
Foto Nicola Morittu