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panorama

Roberto Orlando

Palermo 1996

Vive e lavora a Palermo

Studio visit di Daniela Bigi

Con Roberto Orlando ci addentriamo nel vivo di una scena in fermento. Si è formato presso l’Accademia di Palermo, in particolare nel corso di Pittura di Fulvio Di Piazza; contemporaneamente ha preso parte all’Osservatorio Arti Visive e si è confrontato con il magistero di Toni Romanelli, figura di riferimento per molti degli artisti emersi in questi anni. È tra i fondatori di Parentesitonde e, da pochi mesi, condivide con altri artisti e artiste le Officine Ouragan, un grande studio al piano terra di un palazzo seicentesco, nelle ex scuderie in cui dimorò il famoso cavallo Ouragan.

Sostanzialmente dipinge, e spesso interpola la pittura con la costruzione di situazioni oggettuali e sonore strutturate a partire da elementi linguistici che provengono dal design, dall’architettura, dalla botanica ma anche dal magma visivo del quotidiano, situazioni che fanno pensare agli stadi impermanenti della sua continua riflessione sull’oggetto, passaggi tutt’altro che definitivi di un interrogarsi che lo scarnifica, lo defunzionalizza, lo destruttura per poi riabilitarlo, sotto mutate spoglie, e riproporlo come fulcro dialogico, come terreno di incontro con l’altro. Ad attivare il dialogo è la nostalgia; alla base del discorso si presuppone dunque una mancanza, e di conseguenza un desiderio.

Osserviamo alcuni lavori recenti e parliamo a lungo della sua idea di «oggetto nostalgico». Nella lunga carta orizzontale che ha esposto da Parentesitonde (2022) e nelle grandi tele per un’imminente mostra a Roma, da Porto Simpatica, fanno da protagoniste delle linee molto corpose che, come in un arabesco rudimentalizzato, danno vita a una concatenazione di forme, restituite mediante un meccanismo astrattivo. Si tratta di edifici, fiori, fontane, strumenti di lavoro, giardini, lampadari, suppellettili, un racconto oggettuale autobiografico volutamente crittato, che sfugge alla referenzialità e prende a prestito la strategia sintattica della decorazione vegetale barocca per ragionare metaforicamente sulle relazioni, sulla storia, sul sé. La chiave generativa di questi arabeschi concettuali risiede nello studio della botanica, nell’osservazione e nell’emulazione del comportamento delle piante, in particolare del sistema di radicamento e di propagazione delle orchidee. «Ci sono alcune specie – mi racconta – che trovandosi in uno specifico ambiente, in prossimità di determinati alberi, sono capaci di crescere anche senza terriccio, senza humus, radicando sopra il suolo anziché sottoterra, nutrendosi solamente di aria e di luce». Il processo simpodico con cui si moltiplicano le loro radici crea delle strutture che mentre si adattano all’ambiente di fatto terraformano, si innalzano, diventano oggetti/architetture viventi, suggerendo la visione di una progressione infinita e stimolando pensieri sull’abitare. Orlando modifica lo spazio riproponendo i processi espansivi di quelle piante e costruisce le sue immagini impossessandosi di alcune delle loro forme costitutive (le radici). Il ragionamento, in realtà, è molto più complesso ma non è questo il luogo per dipanarlo. Posso dire però che la meccanica concettuale, metaforica e processuale che l’artista ha escogitato gli permette di dare corpo a una struttura di lavoro innervata da componenti interessanti, che vanno dall’indagine sul legame fisico e intellettuale con il proprio territorio alla questione del paesaggio e della dimora; dallo scavo esistenziale personale e collettivo condotto attraverso la botanica alla problematizzazione del rapporto con la Storia; dal dilemma del progetto e della funzione a quello più controverso della decorazione. Il tutto dentro un orizzonte generazionale, che fa da matrice e da sfondo alle riflessioni.

Tra gli aspetti da evidenziare c’è, a mio avviso, la stretta connessione tra un’alta dose di visionarietà e uno sguardo lucido sui nodi critici dell’attualità; c’è la capacità di bucare la superficie, di procedere secondo una modalità carsica, che oltre a schivare certi conformismi dilaganti gli concede un’evidente freschezza progettuale ed espressiva. Trovo, inoltre, stimolante la sua rivendicazione di uno spazio per la contemplazione: è un ragionamento tutt’altro che nuovo eppure, proprio oggi, tutto da riesplorare. Certo, la sfida sarà quella di riuscire a garantire all’opera, o all’opera-ambiente, la stessa efficacia di cui gode al momento la costruzione concettuale, bilanciando i pesi tra certa verve estetizzante e lo spessore delle questioni affrontate, tra ridondanza e sottrazione, tra urgenze legate all’immagine e posture necessarie alla realtà.

foto Antonio La Ferlita
foto Antonio La Ferlita