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panorama

Roberto Fassone

Savigliano 1986

Vive e lavora a Firenze

Studio visit di Angel Moya Garcia

Nel contesto della Manifattura Tabacchi di Firenze, all’interno della seconda edizione del progetto di residenze Superblast sviluppato da NAM – Not a Museum, si trova attualmente lo studio di Roberto Fassone. Un artista estremamente poliedrico, interessato a strutture invisibili, giochi surrealisti, storie bizzarre, coincidenze fortunose, sottili trasformazioni, e incentrato sui concetti di immaginazione, tradimento, fake o errore. L’inserimento della confusione è molto presente nella sua ricerca come struttura o strategia creativa, originando spazi di tensione che, tuttavia, affiorano come luoghi di fruizione ludica che si declinano in installazioni, video e performance. Fortemente influenzato agli esordi dai pensieri non funzionali di Cesare Pietroiusti, Fassone inizia elaborando una metodologia analitica che viene applicata a elementi che non hanno un’utilità pratica, interrogandosi costantemente su cosa voglia dire oggi fare l’artista e fare arte. Le sue prime ricerche erano indirizzate ad analizzare e mettere in pratica le tecniche più frequenti nella costruzione di opere d’arte, come il cambio di colore, il cambio delle dimensioni, la tautologia, l’ellissi o l’equivalenza. In questo modo, i lavori emergevano come tentativi di addentrarsi nel mondo dell’arte, portando all’estremo la lista di queste tecniche creative. Questo meccanicismo analitico è stato successivamente abbandonato per saturazione, però gli è servito per progredire nella sua ricerca, soprattutto in ambito performativo, in cui ha dato più spazio alla libertà arbitraria. Il suo lavoro è lo specchio di una realtà che lui considera stranissima e per lui fare l’artista è ripetere queste eccentricità, aggiungendo stratigrafie di stranezze. Allo stesso tempo, si interroga su quesiti esistenziali attraverso una libertà che raramente si trova nei codici o nelle regole che provano a intrappolarci, analizzando le falle del fare sistematico. Uno dei suoi aspetti più interessanti è la spontaneità, il fare o rifare le cose che faceva quando era bambino, superando le convenzioni e le finalità pratiche per arrivare a una direzione autentica che prescinde dalle convenzioni, dalle aspettative, dalle regole, dal dover essere accettato in un sistema con riferimenti o parametri ben delineati. Un aspetto ludico in cui tutto il fare arte è orientato al divertimento e alla leggerezza. In questa concezione però si cela un’oscurità, errori, in cui si evidenzia come in tutto il suo lavoro ritorni spesso il concetto della morte, che ha bisogno di trovare un’espressione come rapporto sull’inevitabile o come esorcismo di una sua paura specifica. Nel contesto attuale, il lavoro di Roberto Fassone si inserisce in tutte quelle pratiche che adoperano il fake, il travestimento, il manierismo, la finzione o l’essere qualcun altro come strumento e come risorsa. Basti pensare le corrispondenze o le affinità con Maurizio Cattelan, Jonathan Monk, Eva e Franco Mattes o Chiara Fumai. Contestualmente, l’aspetto ludico segue tutta una tradizione consolidata di cui troviamo tracce, ad esempio, in Carsten Höller o Francis Alÿs.

In questo momento è concentrato sul progetto presentato per la residenza alla Manifattura Tabacchi, in cui l’opera in quanto tale viene sostituita dal libro come concetto; Fassone diventa editore e si avvale di una tipografia con cui pubblica volumi in cui applica tecniche e modi di scrittura di libri di artista. Seguendo la metodologia analitica dei suoi esordi, si è soffermato a indagare le tecniche e le strategie più frequenti nella costruzione dei libri di artista, come la ripetizione, la sostituzione, l’alterazione, l’ellissi, la traduzione, la mancanza, la traslitterazione o la visualizzazione di determinati dati. Questa ricerca ha visto la nascita di quindici titoli di ricerca come punto di partenza, in cui l’applicazione di queste tecniche è portata al paradosso, dalla moda al terzo paesaggio, da libri classici a manuali contemporanei, dai template dei meme a saggi teorici, dalla traduzione in testo delle sceneggiature di alcuni film ai documentari cartacei sui numeri o dalle interviste fino agli scritti sulla performance, strutturando tutta una serie di libri senza la necessità di scriverli. A prescindere dal linguaggio utilizzato per la formalizzazione, l’aspetto performativo emerge e si dirama quasi in ogni suo lavoro. Il racconto, la narrazione o la sua presenza fisica, ne diventano spesso parte integrante. Invece quando l’opera deve prescindere dal racconto di essa si percepisce un certo indebolimento. In alcuni lavori, che si avvalgono della sua presenza, il timore di non essere compreso sembra condizionare la strutturazione di una forte visione unilaterale per agevolare il pubblico a entrare nel suo mondo, mentre in altri, lui assente, l’insicurezza che i lavori siano in grado di vivere da soli lo porta a caricarli di elementi che aggiungono livelli e possibilità di lettura. Aspetti spesso superati attraverso la presenza della parola, orale o scritta, che racconta le opere e che diventa parte integrante di esse. A mio avviso, quando Fassone lavora con la performance, dove ogni possibile inciampo o falla nella comprensione del significato vengono meno, la natura del suo lavoro emerge in tutto il suo slancio e la sua veemenza. Allora, l’invito costante al pubblico a mettersi in gioco elimina ogni passività, stuzzicandolo a ragionare, per perdersi e per aprire uno spazio di immaginazione.