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panorama

Raffaele Quida

Gallipoli 1968

Vive e lavora a Lecce

Studio visit di Lorenzo Madaro

Nello studio di Raffaele Quida mi accorgo che in questi ultimi anni il suo lavoro è diventato sempre più asciutto, essenziale nelle forme e concentrato sui materiali (i più vari) e sulla loro capacità di vivere costanti metamorfosi. Dopo un passato, ormai lontanissimo, legato alla pittura informale, la maturazione del suo percorso è avvenuta in anni di ricerca molto intensa, come è emerso anche da una recente (piccola ma preziosa) mostra da Anna Marra a Roma in compagnia dei suoi conterranei Francesco Arena e Luigi Presicce (a cura di Daniela Bigi) e da altri progetti espositivi recentissimi, come il dialogo con Giuseppe Spagnulo curato da Giacomo Zaza nella cappella di Palazzo Lanfranchi, con il coordinamento di Gianmichele Arrivo (2021). Quida appartiene a un filone della ricerca per certi versi appartato, in grado di assorbire esperienze e perimetri storicizzati ma sempre con un tasso di meditazione e formalizzazione autonomo.

Rinunciando totalmente alla dinamica della pittura informale e al gesto decifrato come segno cromatico che caratterizzava il suo lavoro degli esordi, da alcuni anni l’artista si sta concentrando sull’essenzialità assoluta della materia e sugli stati di cambiamento che subisce quando si relaziona con gli agenti atmosferici, anzitutto con l’aria. Così, brandelli di materia vengono di volta in volta invasi dal tempo che agisce, scatena forze arcane e poi Quida ricompone il risultato in uno spazio ordinato, quello della geometria della forma, che costruisce perimetri e si relaziona con lo spazio. Lo fa anche con un approccio da archivista, chiaramente senza intenti catalogatori o senza alcun desiderio di essere sistematico o ordinato. Piuttosto gli interessa il carattere evocativo dei documenti che rintraccia (così come dei materiali di recupero che sta impiegando ultimamente). Pensiamo a Terreno agricolo, collage di fogli di archivio degli anni Ottanta relativi a terreni agricoli, da lui affiancati e in parte colorati con il ramato usato in agraria, che copre elenchi e dati, restituendoci un insieme di fogli bicromatici che custodiscono una memoria esclusivamente emotiva. Ma non c’è mai un sentimento di nostalgia nei suoi lavori, quanto desiderio di investigare la vita della materia, come le carte che misurano il tempo che scorre, o le lastre di granito su cui traccia impronte, un tentativo (certamente riuscito) destinato alla costruzione di un lessico formale essenziale ed evocativo.

Oggi Quida ci insegna a guardarci attorno, il suo lavoro ha accenti poetici in grado di restituirci la possibilità di un rapporto più intenso con ciò che è materia, transito, trasformazione. Nella sua essenza legata certamente a un profilo estetico minimalista, Quida ci dona la possibilità di entrare nei meandri di un percorso che riguarda l’umano, anche se apparentemente assente dalle superfici delle sue opere. Pertanto quando lascia segni con i polpastrelli su pellicole di carte fotosensibili e quando le affianca a superfici dure, apparentemente non modificabili come il marmo, si evidenzia un desiderio primario di comunicazione e soprattutto di interconnessione tra uomo, tempo, forme e spazio.

Nelle opere del ciclo Antropologia sociale, avviato già nel 2019 – ma in studio, durante il nostro incontro, ne ho viste alcune anche più recenti –, ribadisce la propria vocazione di archeologo di un tempo dilatato, che arriva al presente ma (volontariamente) senza precisare la provenienza cronologica di certi segni, certe tracce. Affiora anche un’attenzione nuova verso il display, i telai in ferro entrano nella dinamica dell’opera, la completano, evidenziano le radici post industriali dell’immaginario di Quida.

Oggi, con queste esperienze della produzione recente, quella degli ultimi cinque-sei anni, il lavoro dell’artista pugliese dovrà ulteriormente svilupparsi, anche andando oltre la dimensione della parete per invadere lo spazio, liberandosi dai perimetri della dimensione duale del supporto dell’opera per strutturare un discorso ulteriore nell’ambiente, facendo entrare nella dialettica interna dell’opera la luce, anche nella sua dimensione totalizzante, non soltanto come traccia sulle lastre, sui supporti di volta in volta selezionati e lasciati soli al sole del sud. È in quella taciturna propensione al dialogo con gli elementi naturali l’essenza più sofisticata del lavoro di Raffaele Quida. Ed è da lì che bisognerà nuovamente ripartire.