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panorama

Pierpaolo Lista

Salerno 1977

Vive a Paestum, lavora a Napoli e a Milano

Studio visit di Marcello Francolini
giugno 2022

Dalla Statale 118, innestati nel ventre cilentano della Campania, in quella geografia mitologica che dall’Heraion a Velia, segue Leucosia sino a Capo Palinuro. Luoghi, ma anche antichi Dei. Qui, all’incontro tra il mondo odierno e il ricordo di quello antico, sta e lavora Pierpaolo Lista. Lo ricrea a partire dal meccanismo di funzionamento della mente stessa. D’altronde come funziona un ricordo? Proprio nei pressi dello studio c’è il sito archeologico di Paestum, lì di certo si ricorda la Storia, ma poi ogni visitatore si fa la propria immagine a partire da ciò che sa. Seduto al tavolo mentre Lista prepara il caffè (come buon auspicio per l’incontro), sul muro bianco di fronte, attira la mia attenzione una fotografia, o almeno a prima vista così mi è sembrata. Un interno di casa costiera, affogata nel sole del primo pomeriggio. Domando il titolo, Materia di un sogno (2012) risponde l’artista, e la vista da apparente si focalizza nei particolari che da precisi si fanno vacui. Tutto ciò che avevo visto era solo nella mia mente, attivato dalla messa in scena di elementi generici tali da rendere all’occhio dell’osservatore una rievocazione di luoghi. Pare che la medesima foto, in un’altra visita piacque a un certo Gillo Dorfles, che in una conversazione con Marco Meneguzzo (Arte con sentimento, 2014) l’ha definita “fotoconcetto”, nel senso che queste foto, denotano una realtà inesistente, in quanto fabbricata. Ma se spostassimo l’attenzione non tanto al processo formale ma al meccanismo di funzionamento, vedremmo che questi paesaggi di Lista sono imparentati con quelli di precedenti artisti che nella Storia si sono rivolti al modulo e alla formula, tanto del tipo della tappezzeria di Hasting (1080) quanto dei Lorrain (1600) o dei Palizzi (1800). Tutti hanno in comune la rievocazione della realtàa partire da una ricerca di formule minime atte a fungere da modello tipologico ideale, che diveniva evidente all’atto di denotazione linguistica del titolo: La città di Hastings, Il Tevere a monte di Roma, Oltre il diluvio. Con ciò abbiamo voluto dire che questa riduzione della messa in scena in pochi elementi sapientemente distribuiti rappresenta la ricerca di schemi tipologici atti a muovere e trasportare l’osservatore nello spazio della propria mente, facendo sì che l’opera si disponga come uno specchio per l’estensione temporale e concettuale del significato, che si manifesta come atto correlativo tra il soggetto e l’oggetto, entro quel fatidico processo di autorivelazione.La sua ulteriore ricerca, parallela e simmetrica a questa, è quella del produrre quadri non dipinti, com’è nel caso dei suoi smalti su vetro temperato. Se normalmente si procede formando per aggiunta, qui si lo si fa per sottrazione. L’immagine finale non viene fuori che da un processo d’incisione. Gli strati di smalto vengono impiegati inizialmente per velare la trasparenza del vetro, ottenendo un “fondo forzato”, su cui la punta chiarifica il concetto, lo disvela secondo un contorno nervoso che registra le “sferzate”, fino a ottenere una forma nitida, seppur lasciata allo stadio d’impressione. Bisogna pur essere consapevoli di dover trattenere una forma nella trasparenza, e che per farlo essa vada impiegata nella sua qualità di idea fugace, leggera, non-espressa-del-tutto. Un livello tale dell’immagine potrebbe per analogia linguistica apparire come la forma di quelle proposizioni completamente generali, se ad esempio pensassimo a un recente lavoro come Match (2022). Potrebbe divenire, l’opera, una proposizione del tipo “su un canestro (sta una) una palla”. Ora, se dovessimo pensare che la titolazione richiama una terminologia cestistica e che l’immagine pare essere proprio la visione frontale di un canestro con una palla in bilico sul ferro, allora è chiaro che il momento preposto alla rappresentazione è il fulcro stesso dell’attimo precedente all’attimo in cui la gravità richiamerà la palla a sé, da dentro o da fuori la rete del canestro. Come a dire che la sua ‘destinalità’ dipende dalla nostra scelta, ovvero dagli elementi extralinguistici che siamo portati ad aggiungere per costruire e completare la nostra azione di significazione rispetto all’opera. La scrupolosità del lavoro di quest’artista è manifesta nella scelta ponderata della titolazione all’immagine, che viene sempre fuori in qualità minima di movimento. Ad esempio Catalogazione (2018), la parola così presentata, da sola, è solo in virtù di un atto classificatorio generico, che contiene tanto le conchiglie tanto le esperienze negative di una vita, così come il contenuto dell’immagine è costituito da parallelepipedi all’interno di una griglia, come la forma più semplice di classificare le cose tanto reali che immaginarie. E c’è un ampio catalogo di questi dispositivi di senso, nello studio di Lista, che dovrebbero poter trovare maggiore risonanza critica, proprio in virtù di questo stile mimetico che salda memoria e iconicità, in un meccanismo di funzionamento coerente alle esigenze del post-simbolismo del XXI secolo.