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panorama

Natalia Malara

Reggio Calabria 1981

Vive e lavora a Reggio Calabria e a Milano

Studio visit di Marcello Francolini

Ridiscendiamo l’Italia fino al collo del piede, dove l’Aspromonte per assonanza è come il malleolo, ultima altura prima del mare, che cinge la valle dove sorge Reggio Calabria, che sul lato ionico guarda la Grecia da lontano; lì, a vista mare, lo studio di Natalia Malara inghiotte tutta la luce possibile per conservarla e centellinarla nei suoi racconti cinematici a olio su matita. L’artista ha un doppio percorso di studi che in qualche modo influenza la sua poetica, da un lato una laurea in Conservazione dei beni culturali e dall’altro un diploma di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, dove segue il corso dell’artista Alfredo Maiorino, da cui forse preleva una capacità di definire un proprio linguaggio di forme minime, di schemi di rappresentazione entro cui poi ha sviluppato il proprio carattere e il proprio processo formale. Diciamo subito che Malara fa uso non pittorico della pittura, là dove intendiamo per pittura un quadro finito. Questo perché, più che di forme, parliamo di situazioni mutevoli che vanno lette in un contesto più ampio, che considera l’intero ciclo o serie. Si può vedere una singola opera? Credo da subito che ciò, almeno allo stato attuale della ricerca dell’artista, sia forse un limite liquido, galleristico, ma di sicuro eccezione performativa della pittura. La forza di questi lavori è la loro compresenza, un’unica opera non rende come un gruppo di medesimi lavori. Prendiamo ad esempio il ciclo Mnemosine (2020-2022), appena menzionato tra i finalisti del Premio Arte (2022): dispiegato nella sua complessità mostra un intero universo, il cui fondo di un bruno senza tempo, ridondante in tutte le opere, diventa un campo d’accadimento, un palco per la messa in scena di diverse situazioni memoriali; in dubbio che il titolo rimandi all’interesse che l’artista ripone verso la memoria, il passato, il tempo, concezioni che in una città come Reggio Calabria assumono toni epici, vista la ciclicità sismica della zona che ogni tre secoli o più rimesta il terreno della Storia. Lavora rielaborando immagini, a partire dagli album di fotografie d’epoca, mescolando ricerca storiografica, d’archivio e rielaborazione formale di estratti di vita quotidiana: il lavoro, la famiglia, i rapporti sociali. Tutti rimessi insieme, cuciti, dall’artista, divengono come frame di una vita passata, che è poi direttamente ricordo che ognuno ha del proprio passato personale come di quello storico. Questo meccanismo di attivazione del proprio senso del ricordo è stimolato dallo stesso processo formale delle opere. I soggetti non sono delineati, ma solo approssimati, così come l’ambiente sfondo quasi neutrale ma, al tempo stesso, posto in un tempo altro, sospeso. Qualcosa che nel suo essere indefinito, lascia aperto un vasto campo di interazione con l’osservatore che, per riflesso, riempirà l’indefinito con la propria definizione di memoria o ricordo, appunto dal personale al generale, dall’individuale allo storico, dal particolare all’universale.

Nel nuovo progetto Anime scalze (2021-2022) la ricerca di un’immagine primaria, qualcosa che fa da fondo al concetto stesso del modo in cui il pensiero insorge in idea, genera una forma pittorica sintetizzata sino a ridiscendere al tratto iniziale, al segno. Colore e segno coesistono vividamente accentuando il carattere indefinito delle situazioni, che in questo caso affrontano l’alterità della mente, rivista attraverso i primi modelli di razionalità sociale ed economica del progresso industriale, dal lavoro minorile nelle fabbriche, nei campi, all’organizzazione della diversità nei manicomi, soprattutto quelli femminili.  Sono di certo lavori che vanno visti in gruppo, giacché solo la variazione delle situazioni rende l’installazione qualcosa pari a un campo di avvenimento percettivo. Bisognerebbe però che l’artista riconsiderasse che tutto questo materiale di indagine di archivio dovrebbe forse in qualche modo sussistere alla forma di presentazione dell’opera, allargare l’evidenza stessa del complesso universo di indagine che sta dietro ogni ciclo. Dall’altro si auspica un’espansione della ricerca e dei cicli, giacché avendo trovato un buon meccanismo di funzionamento per le proprie opere, bisogna testarlo, variando i campi d’indagine. In tal senso, questo uso non pittorico della pittura che fa Natalia Malara, si determina come funzionamento concettuale, come movimentazione del pensiero dall’osservatore alla situazione all’idea. Un processo d’indagine tenacemente ancorato alla tradizione, eppure così labilmente risolto in ritratti sfocati della realtà, che non essendo direttamente riconoscibile, non si muove nel riflesso, ma si determina direttamente come segno. Aliquid stat pro aliquo, qualcosa sta per qualcos’altro (Sant’Agostino).