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panorama

Monica Biancardi

Napoli 1972

Vive e lavora a Napoli e a Roma

Studio visit di Alessandra Troncone

Diplomata in Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Napoli, la formazione di Monica Biancardi è legata alla fotografia di scena, dalla cui esperienza sviluppa una ricerca imperniata su uno sguardo antropologico che spesso pone al centro l’individuo e la sua relazione con il contesto circostante. Suoi progetti sono stati presentati in mostre personali a Napoli, a Castel Sant’Elmo (2006), al Museo di Capodimonte (2009), al Museo Hermann Nitsch (2017), ma numerose sono anche le mostre all’estero, in particolare in Francia dove Biancardi ha esposto più volte grazie a rapporti continuativi con istituzioni e collezioni francesi. Al momento è in corso una sua mostra alla Shazar Gallery a Napoli, dove l’artista ha presentato un ciclo di nuovi lavori.

Partendo dal linguaggio fotografico, Biancardi ha immaginato, negli anni, forme diverse per attivare una più concreta relazione tra i soggetti ritratti e lo spazio ospitante: è il caso ad esempio di Ritratti (2003), dove volti in bianco e nero sono incassati nel plexiglas e contornati da una luce al neon, o di Santi (2003), dove ritrae dieci abitanti di Padula che guardano la propria immagine riflessa in uno specchio, i cui scatti sono montati in cornici antiche della Certosa, all’interno della rassegna Le opere e i giorni. All’indagine su una dimensione più installativa della fotografia si accompagnano i numerosi viaggi in Medio-Oriente e, in particolare, in Palestina, dove Biancardi torna più volte dando vita a una raccolta di immagini che documenta la crescita di due gemelle, che l’artista mette in relazione con i cambiamenti del Paese nel corso degli anni, affiancando ai ritratti delle giovani donne mappe degli stessi territori; un progetto cui l’artista ha deciso, per ora, di mettere un punto e che è in attesa di essere esposto nella forma raggiunta a oggi.

Il lavoro di Monica Biancardi combina uno slancio verso il reportage, teso a mettere in dialogo culture diverse (ad esempio nel ciclo Orientamenti), con uno sguardo più intimista, che rintraccia nell’ordinario mutamenti e scivolamenti che portano a un cambio di prospettiva, come ad esempio in RiMembra, articolato in dittici nei quali le due immagini sembrano completarsi a vicenda, seppur provenienti da contesti diversi.

In tempi più recenti Biancardi ha dato avvio a una nuova produzione che ripensa il concetto stesso di fotografia, andando alla radice dell’etimologia stessa della parola: scrittura con la luce. In queste opere – alcune delle quali esposte nella mostra in corso alla Shazar Gallery, dal titolo The Catalogue of Huts – l’artista non scatta con la sua macchina fotografica ma incide una superficie in plexiglass che, sottoposta a una studiata incidenza della luce artificiale, rivela l’immagine sul piano sottostante. «Devi far luce per vedere le ombre», afferma, sottolineando il risvolto concettuale di tale operazione. La sperimentazione di questa nuova tecnica nella sua pratica si lega a un’indagine sull’universo femminile e, più nello specifico, alle storie di violenza che si consumano nell’ambiente domestico, non più capanna protettiva (da cui il titolo della mostra napoletana) ma luogo di tensioni e di sofferenza. Dunque, il ricorso a mappe geografiche è funzionale alla visualizzazione di dati che alludono a tali soprusi in ogni parte del mondo e, in misura ancor maggiore, durante il periodo di lockdown, cui si accompagna la rappresentazione di oggetti legati al mondo femminile, ma ‘modificati’ per assumere sembianze di armi pericolose, da scoprire man mano che la luce ne rivela le linee di contorno.

In questi ultimi lavori, ciò che prima era accennato diventa tangibile e manifesto facendosi denuncia sociale. Tale aspetto arriva a essere, soprattutto nel caso delle mappe, la trasposizione forse troppo esplicativa di un racconto che, per quanto urgente, rinuncia alla componente più evocativa, che invece si riscontra nel lavoro prettamente fotografico dell’artista.

Un approccio più poetico si ritrova, invece, nell’ambiguità degli oggetti reinventati e nel volto di donna ricoperto di spine della statua trovata per caso e fotografata in via Ripetta a Roma, che allude a un intreccio di significati, dalla sfera personale a quella collettiva. È quindi il racconto biografico, tratto da osservazione ed esperienza diretta, che acquista maggiore potenziale narrativo e poetico, facendosi interpretazione di legami affettivi e dinamiche relazionali ma al tempo stesso sollecitando diversi punti di vista sullo stesso oggetto di indagine.