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panorama

Moira Ricci

Orbetello 1977

Vive a Orbetello e a Rimini

Studio visit di Marco Trulli

Il lavoro di Moira Ricci è inscindibilmente connesso all’identità, alla geografia e al carattere del territorio in cui è nata e cresciuta: la Maremma toscana. 

L’artista, che si divide durante l’anno tra Orbetello e Rimini, ha dedicato molta della sua ricerca e produzione a indagare miti e immaginari rurali riflettendo così sulla sua storia familiare e, allo stesso tempo, sulla condizione e il destino del lavoro contadino. Le vicende biografiche, in effetti, sono l’epicentro emotivo e narrativo del lavoro di Moira Ricci, che si muove agilmente tra media e formati assolutamente diversi. Fotografa di formazione, nella sua produzione conduce un percorso sul crinale che separa verità e finzione attraverso una continua manipolazione delle immagini. In 20.12.53-10.08.04 l’artista modifica numerose foto estrapolate dall’album di famiglia, inserendo in maniera mimetica il suo autoritratto al fianco della madre scomparsa, diventando così spectrum, per citare Roland Barthes. Una collisione temporale che consente all’artista di affrontare il trauma della perdita, di colmare idealmente la distanza con la madre, recuperando attimi di storia familiare fissati dalle fotografie, relegati nel loro tempo sospeso. Attraverso una finzione l’artista realizza nuove immagini del passato che risuonano però come autentiche, per lo struggimento che si percepisce vedendole.

Da buio a buio (2009) nasce invece con un procedimento opposto, in cui Ricci traduce immaginari in immagini. In questo lavoro, infatti, rimette in vita storie di creature misteriose come la bambina cinghiale, l’uomo sasso o quella del lupo mannaro, che rielabora attraverso immagini, fonti d’archivio e video esasperandone la storia e l’atmosfera.

D’altronde, il mondo contadino della Maremma è attraversato da credenze, superstizioni e riti magici che le figure rievocate da Moira Ricci ridisegnano, rappresentando un immaginario popolare fortemente permeato dal mistero.

Il rapporto con l’irrazionale e con il cielo, come altra faccia della realtà a cui affidarsi per superare le difficoltà e le asprezze della vita quotidiana, sono un ambito su cui l’artista si concentra spesso per sciogliere i nodi che riguardano sé stessa e il suo rapporto per lungo tempo irrisolto con il territorio che l’ha vista crescere. Alcuni suoi lavori sono quindi un modo per affrontare questi nodi biografici, a testimonianza di una ricerca molto personale che si sviluppa attraverso una stratificazione di piani, su tempi lunghi in cui sedimentano riflessioni, tentativi e fallimenti. 

Dove il cielo è più vicino è il corpus di opere in cui l’artista inventa nuove mitologie rurali, esplorando lo spazio fertile dell’irrazionale per proiettare vie di fuga verso un altro piano del possibile. Ne Il diavolo mietitore, riprende una leggenda orale tramandata dai contadini inglesi e la trasforma in un’azione: due grandi cerchi concentrici bruciano in un campo di grano ripresi dall’alto da un drone. La leggenda racconta che in seguito a una maledizione (“Che lo mieta il diavolo, allora!”) invocata dai contadini in risposta al rifiuto da parte del proprietario terriero di concedere un aumento per il loro lavoro, il campo si illuminò come fosse in fiamme e il mattino seguente era mietuto alla perfezione, forse proprio per mano di un demone. I due segni di fuoco simboleggiano l’evidenza di una protesta visiva, incarnano secoli di orgoglio contadino ma sono anche segnali di un disagio verso l’abbandono delle terre, presa d’atto del mutamento inarrestabile delle forme del lavoro agricolo.

Ma tornando al rapporto tra cielo e terra, i segni di fuoco richiamano forme e riti ancestrali, saldano insieme presente e futuro con un gesto che è insieme propiziatorio e alieno.

In questo senso Trebbia-astronave, costruita dall’artista con la collaborazione di familiari, parenti e amici durante trentasette giorni di lavorazione, diventa il mezzo immaginario di trasporto e fuga verso un’altra dimensione. La trasformazione progressiva della trebbia è documentata da un video che racconta le fasi di lavoro, i momenti di socialità e la veste spaziale che il mezzo assume nel tempo, fino ad accendersi di notte. Il terreno di famiglia diventa lo spazio di produzione e collaborazione per inventare e costruire finzioni che si insediano nell’immaginario rurale come nuove leggende. Allo stesso modo anche Totem (2020), pugno di cinque metri di Goldrake  ̶ personaggio dei cartoni animati anni Ottanta  ̶ che spunta dalla sommità di una collina in località Fonteblanda (dove si trova il suo podere) tra Orbetello e Magliano, è un segno di dignità e tenacia della vita contadina e, allo stesso tempo, esaltazione di un immaginario infantile.

Se in Andata e ritorno (2019) l’artista torna sui temi dell’orgoglio delle comunità contadine attraverso una grande installazione di collage e specchi realizzata attraverso la rielaborazione di centinaia di foto degli album fotografici delle famiglie di Gibellina prima del terremoto del Belice, in uno dei suoi ultimi lavori, Monda flago (Bandiera del mondo in esperanto), sembra allontanarsi dai temi affrontati sinora realizzando una bandiera di stoffa di sei metri, come tributo alla storia di Antonio Ratti, in cui i simboli e i segni di 254 Paesi del mondo diventano architetture, paesaggi e personaggi di storie e narrazioni fantastiche, oltre ogni confine. Un arazzo moderno dalle atmosfere digitali che è il risultato della destrutturazione di tutte le identità nazionali e del loro rimescolamento in una storia e in un paesaggio comuni.

Moira Ricci, “Totem”, 2021 courtesy Hypermaremma
Moira Ricci, “Dove il cielo è più vicino”, still da video, 2014, courtesy Ass. culturale Dello Scompiglio