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panorama

Matilde De Feo

Caserta 1979

Vive e lavora a Napoli

Studio visit di Marcello Francolini

Ogni visita in uno studio d’artista, che è sempre anche una sosta nell’attraversamento della città, spesso contribuisce a fare memoria dei luoghi propri dell’artista, visto che lui li deve percorrere ogni giorno per raggiungerlo. Così è per il caso specifico di Matilde De Feo, che ha fatto dei luoghi urbani le materie con cui compone e ridefinisce i paesaggi performativi. Non posso non ripensare ai diversi video che compongono Desert Flower (2018), primo capitolo e prima ipotesi di narrazione del nuovo paesaggio di Napoli, che poi rientrerà nel più grande progetto, ancora oggi in atto, dal titolo Naples of Three of Three (2018-2022). Tornando a quei video, le titolazioni localizzano i luoghi della città attraverso il richiamo alle specifiche vie, che sono poi non solo strade, ma memoria della toponomastica storica: via stella, via dei tribunali, via Manzoni, via nuova Scampia, che viste dall’alto racchiudono il contorno di Napoli.

Un doppio sguardo esterno-interno concorre a ridefinire il paesaggio, dal modernismo pubblico di Loris Rossi, Cosenza, Di Salvo, Purini, all’intimità privata di singoli interni. Le sue inquadrature non sono semplici trasposizioni di riprese, quanto più dei veri e propri campi d’accadimento, entro cui più mezzi espressivi concorrono nel determinare la scena. Potremmo meglio definirle delle video-performance, intendendo così evidenziare la connessione, già in fase di progettazione, tra l’opera video e lo spazio, la relazione quindi tra corpi materiali e immateriali che si muovono attraversando scenografie reali o riportate, attraverso l’impiego del video-mapping. Il documentario in presa diretta si traspone in una messa in scena teatrale, in cui ogni interno trasuda una memoria pittorica del più tipico vedutismo napoletano, che corre dai Micco Spadaro ai Salvator Rosa, ai Falcone, ai Gigante, ai Costa, nello spontaneismo simbolico dei “semplici”. La distribuzione delle luci e il livello dei piani concorrono nell’alterazione della realtà, in una meta-realtà in cui i corpi delle persone divengono personaggi immateriali, secondo un processo di conversione dal concreto all’astratto, dal particolare all’universale. Sulle medesime intenzioni, muove anche la seconda ipotesi di paesaggio, quella richiamata per mezzo della memoria storica, come quel genere iconografico degli “uomini illustri”, a cui ben sembra legarsi Ramondino’s Apologue, il secondo capitolo della trilogia. Uno storyboard di un ritratto animato di Fabrizia Ramondino, scrittrice e intellettuale, richiamata qui forse come immagine positiva dei frutti di una città inquieta, dove proprio dagli squilibri sociali è possibile che si sviluppi e prodighi un tale esempio di temperanza e di giustizia. Il lavoro qui assume l’intero spazio come superficie espansa, dalla mappatura in 3d alla presenza dei marker di realtà aumentata presentati come una serie di quadri da far muovere entro altri quadri (gli schermi dei telefonini). Rispetto ai precedenti lavori, che si mantenevano entro i limiti (seppur virtuali) della cornice, come nel caso più prossimo di Cantare in caso di pericolo (2018-2019) o più remoto di Il mio corpo a maggio (2014), qui siamo dinnanzi a una estensione dell’opera nell’esperienza concreta dello spazio. Purtroppo, non ci sono ancora ulteriori segnali certi per indicare ciò come una trasformazione della ricerca dell’artista che, vista la complessità dei mezzi impiegati nella produzione delle sue opere, deve muoversi entro i canali di un continuo foundrasing. Ciò modifica il suo lavoro, la cui ideazione non può prescindere dalla capacità di intessere relazioni fra diverse professionalità, ma anche può rallentarne la produzione vera e propria. A tal fine, non si dovrebbe per forza ricercare i soli canali ufficiali, ma forse estendersi ai nuovi palchi, intesi come le nuove realtà aggregative che alcuni artisti delle nuove generazioni stanno riformulando a Napoli, così come in altri centri italiani. D’altronde la sua è una ricerca pienamente attuale, nel senso di una continua ridefinizione del paesaggio inteso secondo una visione performativa, ma anche nel senso di pensare lo spazio come relazione tra le soggettività corporee e tecnologicamente mediate e i luoghi nella loro varietà e densità simbolica. Eccoli questi paesaggi performativi, da intendersi come lo svolgimento di azioni, di atti. Tutta l’immanenza della realtà, nella ricerca di De Feo, viene di volta in volta assurta in concetti universali sotto forma di figure e gesti che riecheggiano l’essenza della pittura nella sua origine storica, come trasfigurazione di atti reali in atti simbolici. Come nel primo caso, quello degli “Atti degli apostoli”.

Foto Amedeo Benestante
Foto Amedeo Benestante