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panorama

Marta Roberti

Brescia 1977
Vive e lavora a Roma

Studio visit di Nicolas Martino

Marta Roberti ha studiato filosofia all’Università di Verona e arti multimediali all’Accademia di belle arti di Brera (dove ha avuto come docenti, tra gli altri, Mauro Folci, Paolo Rosa, Franco Berardi Bifo, Antonio Caronia). La sua ultima mostra personale, In metamorfosi, a cura di Cecilia Canziani, conclusasi di recente alla Sara Zanin Gallery di Roma, ha ricapitolato e rilanciato ulteriormente gli sviluppi di una ricerca che mette al centro la questione cruciale dell’identità. Identità che per Marta Roberti non è sostanza, ma piuttosto divenire, o meglio, per riprendere il titolo della mostra, incessante metamorfosi che mette in questione fin dalle radici la logica aristotelica e il principio di non contraddizione. Io è un altro, ce lo spiega da tempo la fisica quantistica ma da sempre anche alcune culture orientali, fortemente presenti nella ricerca di quest’artista che spesso fa dialogare Occidente e Oriente nella consapevolezza che ognuna di queste determinazioni geografiche e culturali è compresa contemporaneamente dentro l’altra. Insomma, se è vero che c’è un Occidente ‘maggiore’ che ha fatto della logica aristotelica il suo fondamento, è anche vero che da sempre questo è attraversato sotterraneamente da correnti alternative e ‘minori’ che sanno bene che Dioniso arriva sempre da Oriente a dissolvere implacabilmente ogni principio di individuazione. Allo stesso modo, potremmo dire che il confucianesimo è la spina occidentale nel fianco dell’Oriente. Questo doppio legame, che costituisce la struttura portante del nostro mondo – ben sintetizzata dalla saggezza latina del nec tecum nec sine te vivere possum ‒ e in cui è catturata l’attività artistica della Roberti, che non a caso lavora su carta dello Yunnan che periodicamente si fa arrivare a Roma, scompagina quindi le categorie del vivente, restituendolo alla sua molteplicità. Ultimamente, ed erano presenti anche in mostra, Roberti ha lavorato a una serie di disegni intitolati S’io mi intuassi come tu t’inmii, una frase della Divina Commedia di Dante che potrebbe essere tradotta con: “se io potessi penetrare in te, capire te, percepire te con la stessa empatia che ti fa penetrare in me”. Ecco perché nei lavori della Roberti l’animale, il vegetale e l’umano si trasmutano spesso l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, com’era del resto nelle figure mitologiche e divine di religioni e culti precristiani che oggi risultano essere un’anticipazione del postumano. Metamorfosi intraspecifica, per l’esattezza, che non solo ci dice che nessuno di noi coincide con un supposto sé stesso, ma che ognuno di noi è contemporaneamente quel gatto che sorprendeva già lo scettico Montaigne in un’altra epoca di profonde trasformazioni e che per molti aspetti potrebbe essere avvicinata alla nostra, o quel Licaone (2020) inciso su carta carbone ed esposto in una precedente mostra, curata da Manuela Pacella alla Fondazione Pastificio Cerere, un anno e mezzo fa, poco prima che la pandemia ci gettasse improvvisamente dentro un altro mondo popolato da pappagalli e vegetali che sembravano riprendersi le città deserte. E ancora, il femminile, altro tema che attraversa le opere di Marta Roberti, ma in una chiave che tende a superare i limiti della filosofia della differenza per aprirsi piuttosto al principio queer che rompe con ogni binarismo possibile e presente in molti autoritratti in cui l’artista si metamorfizza in pangolino, o nella serie Lotus Goddesses dedicata alla reinvenzione delle divinità femminili induiste. Rottura dei confini, insomma, a favore di quella “rete ingioiellata di Indra” in cui, secondo la filosofia buddhista, consisterebbe l’essere e in cui ogni gemma riflette l’altra, in un rapporto di mutua interdipendenza. Sovversione delle gerarchie e delle subalternità, restituzione dell’essere alla sua molteplicità costantemente in metamorfosi. Interrogata sulle sue letture e gli autori che più l’hanno influenzata, Marta Roberti cita in rapida successione: Gregory Bateson e Gilles Deleuze, Adriana Cavarero e Rosi Braidotti, Emanuele Coccia e Clarice Lispector. Del suo lavoro hanno scritto, tra gli altri, Felice Cimatti, Cecilia Canziani, Manuela Pacella.