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panorama

Marco Rossetti

Capua 1987

Vive e lavora a Caserta e a Firenze

Studio visit di Marcello Francolini

marzo 2022

Vero è che la stretta di mano è azione più ideale che pratica nella post-pandemia, ma a non stringerla a Marco Rossetti si perderebbe un indizio importante, come la sua scritta sull’avanbraccio, che già ci apre a qualche considerazione sul personaggio: Five Words In One Tattoo. Più che un tatuaggio di qualcosa, è qualcosa a proposito del tatuaggio come possibilità d’esistere come forma proposizionale e non come forma figurale. Come racconta Rossetti, in un vernissage napoletano fu proprio Joseph Kosuth a suggerirgli il tatuaggio, e l’averlo poi fatto realmente denota una “scelta” verso la ricerca di un’origine in cui parola e immagine sono indistinte, dove menzionare qualcosa è già mostrare che è. È il caso di alcuni lavori iniziali dell’artista facenti parte della serie Edit (2014), che rappresentano, in questo meccanismo procedurale, la svolta. “Edit”, come è intenzione della titolazione, non è un lavoro figurale, è un’azione di revisione che si muove da un ricordo personale a una situazione di memoria tipologica, dal concreto all’astratto, dal particolare all’individuale. Due fotografie contigue, tra l’una e l’altra v’è la sottrazione dei soggetti, lo sfondo diviene figura che si apre come spazio non completamente definito, aperto al ricordo-altrui. Potremmo immaginare di sentir l’Eco dei semiotici, là dove Marco procede a sgomberare qualsiasi riferimento oggettivo apre alla soggettività immaginativa e dinamica dell’osservatore con l’effetto di lasciargli produrre una moltitudine d’immagini in continua variazione mentale. Una fotografia impropria sottende al tutto il suo lavoro. Nel caso, per esempio, di una serie di lavori più recenti, Clustering Illusion (2020), ci si muove su un’immagine intesa come un processo di deviazione interpretativa causata dal pregiudizio, così come avviene nel fenomeno, che la psicologia cognitiva ha definito “Bias”, intendendolo come causa di una mancanza oggettiva di giudizio. Qui il compromesso più semplice è credere nella congruenza tra le due immagini, ma dietro le apparenze, i particolari lasciano compiere una traslazione spaziale e topografica tale che ora che riguardiamo l’immagine, essa ci appare completamente diversa da come credevamo che fosse all’inizio. È tra interpretazione e apparenza che si muove il controsenso di queste opere. E così ancora si è mosso dal particolare al generale, dal fenomeno all’uso che del fenomeno fanno i sistemi di comunicazione sulla società. La sua è una ricerca della fotografia come rivelazione nell’assenza, come capacità di condurre l’immagine verso la visualizzazione dei meccanismi mentali, visualizzati per intrattenere un discorso su di essi, intorno alla società attuale. D’altronde, cos’è la pubblicità comportamentale di Facebook se non la costruzione di un mondo ristretto intorno a ciò che già prima abbiamo ricercato (Frenkel e Kang, L’inchiesta finale, 2021)? Dobbiamo avere la forza di resistere come un’ancora nel mare, stabile alle onde, per poter rivedere la realtà, così come nella serie Fare il deserto (2020), in cui Rossetti sembra affermare l’identità oggettuale dell’immagine fotografica. Cancellata ogni significazione esterna, la memoria si organizza attorno a una formazione casuale, indistinta, riattivando così la condizione primaria della coscienza, l’atto di simbolico. La stessa movimentazione organizza e ridefinisce la “cosa bidimensionale” staccandola dalla superficie del muro. Ma il prelievo fotografico non sembra, nella serie Morning Star (2021), trovare un punto più avanzato, quanto piuttosto arrestarsi. Questa serie di lavori si limita a una variazione formale. Una messa in scena notevole, certo, la stampa fotografica che imita una pittura monocromatica e una fotografica in bianco in nero, ma in fin dei conti fa ciò, attraverso la reiterazione di esercizi precedenti, come le immagini movimentate o estratti da brani di cronaca attuale. Bisognerebbe mantenersi a quella forma incompleta e non dare completezza di cronaca, che restringe l’immaginazione ancorandola al fatto. Ma bisogna pur perdersi per ritrovarsi, oppure semplicemente ricercarsi, inteso non per forza come cercare qualcosa di specifico, più un cercare alcunché, o un non-cercare, come attitudine che riemerge nell’ultima serie di lavori, uno è qui in studio, ancora fresco, Whatever I Do, I Do Nor Repent, I Keep Pissing Against the Moon (2022). Qui si apre una più ricca correlazione tra esperienza e consapevolezza di un limite che si estende, che inizia a scrutare lo spazio come ampliamento delle esistenze e significati del mondo, come l’ostinazione che ha portato dal personaggio di Bruegel il Vecchio (1558) al Neil Armstrong (1969) e presto alla Missione Artemis (2025-2026).