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panorama

Lucia Veronesi

Mantova 1976

Vive e lavora a Venezia

Studio visit di Paola Nicolin

«È la stagione delle “moeche”, non lo sai?». Con Lucia Veronesi cammino lungo le rive della Giudecca per arrivare al suo studio, che si trova nell’ex birrificio dell’isola veneziana. I granchietti verdi in fase di muta che si avviluppano forsennati nelle ceste dei pescatori veneziani sono un presagio di quell’affastellamento di immagini e materia che trovo poco dopo in atelier.

La stanza è apparentemente ordinata, ma la velocità dell’intercedere di Lucia e un più attento esame dello spazio mi rendono più esplicita questa idea di ‘accumulo’ che ho spesso letto a proposito del suo lavoro. Filamenti di tessuti cuciti insieme a brandelli di carta che pendono dal soffitto, cataste di riviste d’epoca, faldoni in cartone, libri aperti e chiusi, un cesto ampio di scampoli di abiti che ti viene voglia di metterci le mani per trovare la tua taglia: Lucia Veronesi, come molti, è stata trascinata in laguna da una collaborazione con la Biennale. Che effetto fa ancora oggi ai giovani artisti italiani lavorare in questa istituzione? Lei pensa e parla con le immagini. I suoi soggetti sono gli interni domestici, la relazione tra dentro e un fuori, tra l’arredo e la natura, tenuti insieme da un evento catastrofico che sembra stia lì per accadere. Nei suoi video animati e nei suoi collage cuciti le immagini sono sempre in movimento. C’è un fondo di favola horror in ciascuna di esse, qualcosa che attrae ed eccita: un guardare nel foro della serratura per scoprire drammi, perversioni, ma anche una sana curiosità del voyer che c’è in ognuno di noi (come il video Il voyeur, 2013, di cui l’artista scrive in termini di «un viaggio dentro una casa: ogni stanza è un immaginario a sé. Lo sguardo che le attraversa è indagatore e curioso. Incontra qualcosa di rivelatorio, da spiare in silenzio»). La sua pratica muove dal collage, alla videoanimazione, all’illustrazione. Media diversi utilizzati diversamente e simultaneamente. L’artista, che ha più volte manifestato di rivolgere il suo interesse verso la figura dell’accumulatore seriale, sceglie di esprimersi attraverso lavori concepiti spesso come serie di opere (Cuore solitario, I Maestri del colore, L’Italia sfondata,per esempio), a corroborare la tesi secondo la quale l’accumulo non è solo una fascinazione bensì un’attitudine metodologica, una condizione esistenziale dell’opera stessa.

Nello studio, d’altra parte, sta prendendo forma il suo ultimo lavoro, che sembra aggiungere complessità alla ricerca. Si tratta infatti una serie di tessuti cuciti, intitolati La distanza dell’eterno, presentati come stendardi formalmente ispirati a quelli di Mary Lowndes, artista inglese che nel 1907 fondò a Londra la Lega delle artiste suffragette, creando una guida con le regole per realizzare striscioni e stendardi da portare alle manifestazioni per il diritto di voto alle donne. I tessuti sono l’esito di un’indagine dedicata a rilevantissime astronome e scienziate, autrici di alcune fra le scoperte più importanti degli ultimi secoli, eppure sottopagate, ostacolate, misconosciute, private di riconoscimenti, discriminate dai loro stessi colleghi maschi. Veronesi accumula informazioni sul loro conto. Ne analizza la biografia privata e professione e scopre, per esempio, che sono spesso state loro a sintetizzare formule matematiche attraverso frasi che colpissero l’immaginazione. «Per esempio Oh Be A Fine Girl, Kiss Me ancora oggi è la frase più usata per ricordarsi come classificare le stelle, a seconda della loro temperatura. È un acronimo: le iniziali di ogni parola si riferiscono infatti alle classi spettrali denominate O, B, A, F, G, K, M (dalla più calda alla più fredda). La frase è stata inventata da Henry Norris Russel, negli anni in cui la leadership nell’astronomia era esclusivamente maschile, ma la classificazione fu inventata dalla scienziata Annie Jump Cannon (1863-1941). Ho estratto alcune tra le frasi per me più significative e le ho inserite in uno stendardo di tessuto cucito. Ognuna si riferisce a un’astronoma. Frasi, forme e figure che compongono lo stendardo formano idealmente un ritratto di ciascuna donna», scrive l’artista. Favola e documentario avevano trovato, d’altra parte, una sintesi anche in una produzione cinematografica dell’artista presentata al Cinema Galleggiante nell’agosto del 2021; è qui infatti che Lucia Veronesi ha proiettato un documentario-intervista dedicato alla figura di Lisetta Carmi. Con La fortuna interiore l’artista insieme a Valentina Bonifacio compone in Puglia un ritratto per immagini e parole della fotografa e musicista, da qualche anno al centro di una forte attenzione da parte del mondo dell’arte contemporanea. Nata a Genova da una famiglia di origine ebraica, al momento dell’intervista questa donna potente del Novecento aveva 93 anni e racconta di come, dopo aver raggiunto la fama come pianista e come fotografa a livello internazionale, abbia costruito, nel 1979, uno dei primi Ashram d’Occidente nelle campagne di Cisternino in Valle d’Itria. Attorno alla forma simbolica del tempio che riproduce perfettamente quello di Haidakhan, un paesino indiano alle pendici dell’Himalaya, dove nel 1970 Babaji apparve per la prima volta e dove avvenne il primo incontro con Lisetta, si costruisce così una narrazione in movimento, dove sopra al dato reale Veronesi disegna un’altra immagine. Ancora una volta il centro di interesse dell’artista è un prototipo di casa – grotta – interno, che si relazione con un esterno caricato di un’ossessione – affezione quasi antropologica. Come si vive dunque nell’accumulo? Mai come dopo la pandemia la relazione tra noi e gli oggetti – noi e lo spazio domestico – ha subito dei radicali cambiamenti che in un certo senso il lavoro di Veronesi ha anticipato. A partire dalla riflessione sull’invivibilità dello spazio sarà interessante in futuro capire come queste attitudini troveranno una forma (più) compiuta.