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panorama

Luca Gioacchino Di Bernardo

Napoli 1991
Vive e lavora a Napoli
Studio visit di Alessandra Troncone

Nell’appartamento-studio di Luca Gioacchino Di Bernardo è difficile stabilire dove finisce la pratica artistico-lavorativa e dove inizia la vita di tutti i giorni. Gli spazi adibiti all’una o all’altra confluiscono tra loro senza possibilità di tracciare un confine netto. Succede così che ci ritroviamo a parlare sul tavolo della cucina, dove tra libri aperti, appunti e disegni abbozzati si respira un’aria di pieno fermento creativo.

Di Bernardo ha una formazione da incisore che si innesta in letture di poesia e filosofia, ma anche in una passione per il teatro e in una profonda curiosità intellettuale nei confronti di tutto ciò che ha a che fare con religione e misticismo. È da questa stratificazione di riferimenti che prendono vita le sue visioni, trasferite in primo luogo in scrittura e disegno, due linguaggi che procedono per vie indipendenti pur incrociandosi in molte opere recenti dell’artista. La scrittura è trasmissione di conoscenza, che però arriva ad assumere una autonomia estetica, per certi versi non pienamente formalizzata. Il disegno è il regno nel quale creare cosmogonie, mondi autosufficienti nei quali è condensata una notevole quantità di livelli, sia concettuali che formali. Mentre mi parla della sua ricerca attuale, Di Bernardo non alza la matita dal foglio; spiega e disegna, e dal suo racconto estemporaneo prendono forma le opere ancora a venire, schizzate in forma embrionale per seguire il ragionamento in corso. Il fulcro è la costruzione di quello che lui definisce un possibile ‘vangelo’, una narrazione visiva articolata in quattro parti di cui ciascuna dedicata a un elemento naturale. Un progetto in via di sviluppo che lo terrà impegnato nei prossimi mesi, forse anni. Il primo capitolo, dedicato al fuoco e suddiviso a sua volta in tre parti (innesco, combustione e cenere), è in progress e su questo si basano i lavori in preparazione per la mostra personale alla galleria Tiziana Di Caro in programma per il prossimo autunno, una serie di disegni di grandi dimensioni cui probabilmente si assoceranno anche alcune opere tridimensionali, in fase di progettazione. Senza scendere nei dettagli dei presupposti teorici di partenza e di come questi generano forme e organismi ibridi, partoriti da una notevole complessità di pensiero, si può dire che l’asse su cui ruota il tutto è costituito dal punto di osservazione. L’artista cerca, infatti, di ricostruire un possibile sguardo sull’umano, suggerendo di assumere il punto di vista di un’altra specie, ispirandosi al concetto di “inumano” presente nell’opera del filosofo iraniano Reza Negarestani e contaminando riflessioni provenienti da Oriente e Occidente. L’albero assume in questo discorso una posizione centrale per ragioni naturali, simboliche e spirituali e dunque torna a più riprese, come unità e come frammento.

Il valore della ricerca di Di Bernardo sta nel conferire al disegno, e ancor più al tratto della mano, una specifica funzione in quanto campo di espressione del pensiero, riallacciandosi a una tradizione millenaria ma, al tempo stesso, cercando nuove possibilità narrative ed espressive. In tal senso, va rilevata anche la ricerca sul supporto da parte dell’artista, che spesso si indirizza all’utilizzo di carte inusuali nell’ambito artistico, in commercio per scopi specifici, che rientrano a pieno titolo nel processo creativo. L’impalcatura teorica che sostiene la sua produzione è di grande spessore e attinge a una molteplicità di fonti che mescolano cultura erudita e cultura popolare, rendendo impossibile una lettura puntuale e filologica ma, per questo, aprendo a una varietà di mondi possibili. Ciò si traduce anche in una complessità tecnica, con un lavoro minuzioso sul tratto e sullo sfumato che non tralascia i minimi dettagli.

Approcciarsi al suo lavoro risulta affascinante e arduo allo stesso tempo; seppur Di Bernardo dichiari di voler parlare del reale, gli argomenti messi in campo trascendono ogni possibile riferimento immediato. Quello che per lui ha un chiaro sviluppo logico può arrivare a mancare di appigli certi per chi ascolta e osserva, soprattutto se in assenza di un codice di accesso al suo universo visionario, rischiando di far confluire discorso concettuale e visivo in una bolla autoreferenziale. Tuttavia, come lui sostiene: «Credo nei contrari, per cui per parlare del reale devo parlare dell’irreale». Un’affermazione che suona come un invito a lasciarsi trasportare dai dettagli e dagli indizi disseminati nelle sue opere, per immaginare nuovi collegamenti tra gli elementi in gioco.