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panorama

Jacopo Martinotti

Milano 1995

Vive e lavora a Milano

Studio visit di Edoardo De Cobelli

Jacopo Martinotti emerge dal contesto della NABA di Milano, come avviene, in anni recenti, nel caso di sempre più giovani artisti promettenti. Nella sua ricerca performativa, l’influenza di Massimo Bartolini e Marcello Maloberti è presente sottotraccia, leggera ma leggibile.

Quello che mi ha più stupito, fin dal primo incontro, è la coerenza artistica del percorso di Jacopo, che l’ha portato anche a esporre il video Anno X nella mostra collettiva Domani Qui Oggi, curata da Ilaria Gianni a Palazzo delle Esposizioni, come evento collaterale della Quadriennale d’arte 2020. FUORI.

Le opere di Martinotti ritraggono l’aspetto più delicato ed effimero della memoria e la nostra relazione con la Storia, i suoi monumenti e la sua rappresentazione. La dimensione corporea e performativa, spesso presente, diventa mezzo silente di espressione del non detto che le testimonianze del passato portano con sé. Durante i nostri successivi incontri, fino all’odierna chiacchierata, ho compreso che il filo conduttore che lega le sue opere è proprio la capacità di creare, attraverso atti semplici, giustapposizioni di corpo e mezzi espressivi, forme narrative di leggerezza poetica, che attraversano oggetti, così come immagini e ricordi.

In Anno X, l’ombra del corpo dell’artista traccia delle coreografie sul Vittoriano, quasi come un esercizio domestico. La linearità presente nella bellezza neoclassica è tradotta dai movimenti, che, ipnotici e regolari, ne alleggeriscono la monumentalità. Ne’ l’Encyclopedie de l’architecture nouvelle, sono le sue mani a far scorrere, a ritmo cadenzato, alcune diapositive delle opere razionaliste di Terragni, fatte dall’artista stesso. Il filmato è la macchina, e la macchina sono i nostri occhi, che scorrono immagini sfocate, come filmini di famiglia. Senza la falsa preoccupazione di dover dire qualcosa, a volte le opere traducono l’atto stesso del rievocare, ricreando la grana del tempo e il modo in cui questo si deposita nel ricordo. Cima Tre è, in questo senso, paradigmatica. Il semplice atto di imprimere una poesia su un panetto d’argilla lascia emergere la forma, stirata e allungata, di alcuni versi di Ungaretti trovati lungo una via di Sagrado. Martinotti si è fin da subito spogliato dell’affaccendarsi che spesso circonda il gesto artistico, riducendo l’opera all’essenziale, una sottrazione che spesso richiede tempo e autoconsapevolezza.

Sempre con uno sguardo rivolto alla fragilità statica del monumento, Jacopo sta ora portando avanti la ricerca che lega corpo e architettura, oltre a includere una dimensione sonora ancora poco esplorata. Il corpo, come il monumento, talvolta anche spoglio, non è tuttavia mai personalizzato. La nudità avvicina, semmai, la sua forma all’idea stessa di monumento, privo di ornamenti e carico di una solennità statuaria.

In una scena italiana poco propensa alla performance, la ricerca di Martinotti deve probabilmente faticare a costruirsi le proprie condizioni di ricezione. Per un pubblico abituato alla sovrastimolazione visiva e raramente attivo su questo fronte, la sensibilità artistica di Jacopo rischia di non ottenere l’attenzione meritata. Tuttavia, l’artista non deve mediare la propria ricerca andando incontro a più facili dinamiche di fruizione: una strada, questa, che Martinotti non mostra di voler intraprendere.