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panorama

Guendalina Salini

Roma 1972

Vive e lavora a Roma

Studio visit di Nicolas Martino

Guendalini Salini, artista, ha studiato storia dell’arte a Roma e successivamente arti visive a Londra. Attiva sulla scena artistica internazionale dalla seconda metà degli anni Novanta, è rappresentata dalla Galleria Ex Elettrofonica di Roma e ha al suo attivo diverse e importanti collaborazioni con spazi pubblici e privati sia in Italia sia all’estero. Da sempre interessata alla dimensione “collaborativa” dell’esperienza artistica, ha fondato il collettivo La Frangia con il quale porta avanti diversi progetti e laboratori interdisciplinari sul territorio, incrociando arti visive e sonore con l’intento di moltiplicare il potere trasformativo dell’arte soprattutto lì dove i diritti umani fondamentali vengono ripetutamente calpestati. Se, spesso, l’attività artistica consiste in interventi con le comunità di quei territori che si trovano nelle “periferie” del mondo globalizzato dal capitalismo, la restituzione di queste esperienze conosce regolarmente momenti espositivi in gallerie private (la prossima inaugura il 30 settembre a Roma), musei e fondazioni, come è successo per Riparo, una mostra tenuta al Pastificio Cerere di Roma nel 2018 e che si segnala qui come particolarmente significativa per cogliere i diversi aspetti estetici e politici di questa pratica artistica. Salini usa diversi mezzi espressivi, dal video alla fotografia, dall’installazione alla performance, per costruire sempre “esperienze” che (ri)diano senso a storie, luoghi e comunità la cui memoria e identità sono rimaste schiacciate sotto il peso dello sfruttamento o, più complessivamente, del fallimento di quel progetto moderno così caro ad alcuni filosofi e architetti che, accecati dal loro superomismo (sarà un caso che fossero tutti maschi e bianchi?), hanno prodotto ‘orrori’ su ‘errori’.

Eccolo, dunque, il valore di questo lavoro nel contesto artistico contemporaneo: intendere politicamente l’arte qui significa farne una pratica collettiva che, costruendo legami tra le persone che abitano e vivono un territorio, allo stesso tempo riesca a innescare processi di trasformazione a livello individuale e sociale. Ricostruire memorie dimenticate, per esempio, come nei molti progetti realizzati in Puglia e in Calabria dove il bracciantato migrante – vittima di uno sfruttamento che rende evidente come la nostra iper-modernità stia tutta dentro una pre-modernità che stratigraficamente riemerge come epoca di quell’accumulazione originaria di cui parlava Marx –, si riallaccia a quello ‘indigeno’, che negli anni Cinquanta lasciò le campagne nelle quali per secoli aveva subito lo sfruttamento di diversi padroni per cercare una nuova vita nelle fabbriche del Nord. La condizione migrante, fenomeno caratteristico della nostra epoca, come già altre volte in passato, è colta dalla Salini come elemento attivo e trasformativo con il quale occorre inevitabilmente confrontarsi, senza concessioni a visioni populisticamente vittimizzanti che nascondono sempre quello che Said avrebbe chiamato uno punto di vista “orientalista” sull’altro. E non è una differenza da poco, in un’epoca come la nostra nella quale l’esotico diventa spesso merce culturale da supermercato, funzionale a disattivare il potenziale politico di tutto ciò che è “straniero”.

La produzione più recente è quella che la Salini sta preparando per la sua prossima mostra da Ex Elettrofonica, che inaugurerà il 30 settembre, e consiste in una serie di sculture e installazioni che trasformeranno l’ambiente della galleria. La dimensione spaziale, sempre più importante rispetto a quella temporale tipicamente novecentesca, è un’altra delle caratteristiche fondamentali di questa pratica artistica, che fa dell’abitare, e quindi della necessità di risolvere la naturale fragilità umana cercando un riparo, una dimensione poetica da esplorare. Come succede anche nel progetto Bärakkä che devia l’utilizzo del manuale di istruzioni Ikea e invita a costruirsi una casa con niente, o nel laboratorio Corale Corviale, che rimanda a quei progetti moderni falliti cui si accennava prima e che vengono rianimati dall’auto-organizzazione attiva di chi questi spazi li abita.

Se un punto debole si deve registrare, forse lo si può individuare nell’eccessiva ricchezza di elementi che a volte si trovano nelle restituzioni: è possibile che un lavoro, per sottrazione, faccia risaltare maggiormente la potenza espressiva di alcuni singoli interventi, che per essere recepiti in tutta la loro poeticità potrebbero richiedere una maggiore concentrazione da parte dello spettatore. Infine, uno dei punti di maggiore forza della pratica di Guendalina Salini si può ravvisare sicuramente nella capacità di lavorare all’incrocio di diverse discipline, l’architettura e la sua dimensione sonora, la narrazione e la sua dimensione visiva, per esempio, lontani da ogni pretesa individualistica, collaborando sempre con soggetti portatori di saperi diversi che non possono che arricchire la capacità che pratiche e saperi, intesi come lavoro di gruppo, hanno non solo di leggere la realtà circostante, ma anche di trasformarla.