Massa 1988
Vive e lavora a Torino
Studio visit di Alessandra Franetovich
Lo studio si trova nel quartiere di Vanchiglia a Torino, città in cui l’artista è rimasto a vivere dopo aver terminato il biennio in Pittura all’Accademia Albertina. Il triennio lo ha conseguito a Venezia, mentre adesso è professore di Anatomia all’Accademia di Urbino. Lo spazio ospita quadri, oggetti (cristalli, strumenti ottici) e pigmenti, alcuni inusuali: sangue di drago, nero fumo, bianco d’osso.
La sua produzione è caratterizzata da un’attitudine post-concettuale e media-archeologica, ed è direzionata all’ontologia della pittura e alla riflessione critica sull’atto dell’osservare nell’era digitale. Le sue opere sono rielaborazioni e traduzioni mediali da fonti diverse, quali fotografie sulla fisica meccanica dei liquidi, trattati ottocenteschi sulla teoria del colore, videogame – come nella serie Item (2021) raffigurante pistole che aprono al tema della soggettività dell’user – e software. L’indagine sul telerilevamento terrestre, le fiamme dipinte come fonte di luce, il rilevamento 1:1 della superficie terrestre, sono alcuni dei soggetti cui l’artista ricorre per riflettere sulla presunta oggettività delle immagini.
All’origine della sua pratica risiede una domanda critica nei confronti del medium e della sua decantata (eppure mai avvenuta) morte: perché fare pittura oggi? Un interrogativo che trova un confronto con un dibattito attivo da decenni e una genealogia di respiro internazionale (Godfrey, Stop Painting/Start Painting), ma che si contestualizza in un periodo storico caratterizzato dalla forte presenza della pittura in eventi istituzionali, nei circuiti no profit e nel mercato, anche in Italia. Esattamente di fronte agli schermi digitali, all’abbassamento della soglia di attenzione, all’ipertrofia dell’immagine che satura lo spazio (Anders), fare pittura è un’apertura alla riflessione, un gesto ‘inattuale’, volto a comunicare “un’ecologia dello sguardo” in quanto, in virtù della sua storia millenaria, la pittura permette di prendersi una pausa dall’osservazione veloce e quindi di ragionare sui meccanismi attuali e storici dell’osservare.
Di recente ha sviluppato opere in linea con l’idea di “pittura rientrante”, in cui gli «elementi tridimensionali non si espandono dalla tela allo spazio (per dichiarare l’insufficienza del formato quadro), ma, all’opposto, vorrebbero corrugare lo spazio, rimpicciolendolo e riportandolo al quadro» (intervista di A.G. Vergine). Da ciò trae origine il suo ultimo lavoro, Cono d’ombra (2022), vincitore del Premio Internazionale Generazione Contemporanea. Due coni irregolari in tela dipinta sono appesi e soggetti a spostamenti d’aria causati dai visitatori, creando proiezioni di ombra a terra. Rimandando a una visione fantasmagorica dell’opera e dell’immagine, la questione centrale si esplica nella scelta cromatica che replica la gamma di rosso-violacei intercettati dalla rodopsina, pigmento fotorecettore presente nella retina. Un lavoro che segue Il giardino di notte (2021), vincitore del premio ministeriale Cantica21. L’opera è una pantomima dello studio d’artista ed è composta da oggetti realizzati in tela dipinta con pigmenti fosforescenti a base di terre rare. Nella versione diurna lo studio è riconoscibile ma silente, di notte si accende trasformandosi in una stanza fantasmagorica abitata dai fiori fosforescenti, suggerendo come la vita delle opere non segua gli schemi orari delle istituzioni ma li sovverta, denunciando la politica dell’estrattivismo che consuma risorse minerarie e umane.
In un periodo di fiorire della pratica pittorica di stampo figurativo, la ricerca di Rossi può risultare ermetica. Per superare i limiti comunicativi della pittura post-concettuale, l’artista può dare ancora più spazio alla soggettività così da favorire l’apertura dell’opera alla partecipazione dell’osservatore, ampliando una concezione di opera come dispositivo ottico già presente nei lavori qui menzionati e in Tentativo n. 1,2,3 di dipingere quello che vedo con gli occhi chiusi (2016).
Attraverso lo sguardo critico collocato nella data driven society, l’artista adotta soluzioni proprie creando combinazioni nuove e ponendo interrogativi sul proprio operato, un fare non comune in Italia, dove molta pittura è pura commodity. È nel sospetto (come dice Groys) nei confronti del reale e di ciò che reputiamo tale che si innesta il valore di un’operazione critica.