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panorama

Giovanni Loria

Salerno 1984

Vive e lavora a Cava de’ Tirreni e a Villa D’Almé

Studio visit di Marcello Francolini

Tra Cava de’ Tirreni e Villa D’Almé che, tutto sommato, s’assomigliano e s’assommano tra uggiosità meteorologiche e lateralità culturali alla periferia l’una di Napoli, l’altra di Milano. L’artista Giovanni Loria è come un moderno Lorenzo Lotto che sposta le indagini attualissime che si svolgono, dal centro alla periferia. Da Casa Rossi, un palazzo storico del Settecento, una ex casa di cura per non vedenti, trasporta il suo studio in Villa d’Almé, in una ex fabbrica di pannelli in alluminio. Il passato del luogo è impregnato nella forma stessa degli spazi ampi e uniformi, atti ad accogliere le allegorie simboliche di Loria. Diciamo subito che l’artista fa un lavoro che propende alla scultura, all’installazione, le cui forme sono promosse da una manipolazione essenziale della cosa, sia essa materia od oggetto, che viene così rifunzionalizzata e riconnessa a un universo più ampio di significati simbolici. Prendiamo il caso del Naufragio del silenzio (2021-2022), un’installazione a prima vista quasi poverista, composta con materiali di riuso, se non fosse per la titolazione che dovrebbe in un attimo risolvere quell’assemblaggio di materiali in una forma ben salda, che è a proposito dell’omonima opera di Caspar Friedrich (1824), quel ghiacciaio in una langa di neve. Eppure alla desolazione pura, intesa come stato d’animo, Loria correla una desolazione sociale legata ai materiali stessi, che a ben guardare non sono che scarti di costruzione legati al tipo di paesaggio periferico. Quella che, per il tempo del tedesco, era la sconfinatezza della natura pura, oggi è la cementificazione rampicante degli hinterland per l’italiano. Dall’altro lato, disposti su tavole orizzontali, c’è la serie in progress Si può fotocopiare un testo ma non un gesto (2022), una ricerca della qualità estetica dei grafemi, che in questo caso sono legati in maniera duplice al Braille e al Liss, che tendenzialmente sono linguaggi non verbali, nello specifico tattile e gestuale. Una sintesi del segno linguistico che diviene espressione propria, autonoma, astratta, simbolica, tale da permanere oltre il gesto stesso che la sancisce e da cui la traduciamo come segno, attraverso una trasposizione copiativa, una semplice fotocopia. Il bagaglio della ricerca di Loria è pieno di queste insidie che sussistono tra il linguistico e il formale e che mirano piuttosto che alla formazione di immagini concluse, alla disponibilità di una continua riformulazione della forma in più forme, a partire da uno spesso strato di correlazioni semantiche e percettive. Questo passaggio è meglio approfondito dalla serie RGB (2022), dove l’artista intesse una districata rete di assonanze logico-percettive nelle sue probabili foto di probabili cose e/o situazioni. La nitidezza della foto lascia spazio all’indeterminatezza dei colori fondamentali dell’epoca digitale, rosso verde e blu, un cortocircuito che fa dell’opera che vorrebbe rassomigliare a un errore di stampa, una fotografia manipolata che assomiglia a una stampa digitale. I soggetti poi non si mostrano che per assenza, attraverso l’alter ego del corpo, l’ombra. Dai casi descritti ci si accorge che la ricerca di questo artista mira a una forma di magica spazializzazione dei significati attraverso interventi che trovano nel paradosso formale il modo di svincolarsi del simbolico dal concreto e di porsi come misura dello “spirito della Storia”, come intendeva Panofsky (1932), nel senso di una totalità in virtù di quelle categorie immutabili e non certo progressive. Qui Loria risponde alla sfida attuale dell’arte, di riporre attenzione su ciò che non sfugge, ma permane, su ciò che nonostante tutto ci lascia riconoscere noi stessi attraverso l’eco di ciò che siamo sempre stati.

Tuttavia però la produzione non appare ancora ben articolata nelle diverse indagini che l’artista ha aperto, come se tutto fosse frutto di vulcanismo recente, di cui si registra un notevole interesse che va tuttavia confermato nella volontà di aumentare il proprio “capitale reputazionale”. Questione quest’ultima che a lungo termine sembra trovare future conferme, almeno nell’attuale volontà dell’artista di trasformare e ampliare il proprio studio a luogo diversificato, per progetti relazionali ed espansi rivolti al quartiere, all’intera comunità, ad altri artisti.