Roma 1988
Vive e lavora a Roma
Studio visit di Daniela Trincia
Seppure “romano de Roma”, Gianmaria De Luca si è fatto le ossa in giro per il mondo. Perché ha vissuto fuori dalla Capitale e dall’Italia (Australia, Svizzera, Stati Uniti, Canada, Indonesia, Cina, Belgio, Islanda…) per ben 12 anni, durante i quali ha lavorato anche per importanti istituzioni, come il Théâtre de la Monnaie di Bruxelles o la Kunsthall di Stavanger. Poi, la pandemia lo ha riportato, e bloccato, a Roma, nel suo studio in uno dei quartieri tra i più ‘romani’: San Lorenzo. È da questa stanzialità coatta che sono nate le idee degli ultimi lavori cui si sta dedicando da un paio di anni: raccontare la sua città attraverso il progetto Camera obscura – Roma. Allievo di Claudio Abate, ha sempre fotografato opere d’arte nella loro situazione originaria, ciò ha determinato il fatto che molti dei suoi lavori sono rifotografati nel luogo in cui sono stati realizzati e, quindi, ricontestualizzati. Anche se i suoi esordi non sono stati tra i più canonici, con servizi fotografici per feste di compleanno o nelle discoteche, in seguito è stato assistente degli insegnanti dell’Istituto di Fotografia di Roma e ha lavorato con l’importante studio romano di stampa fotografica Fotogramma 24.
Sperimentando varie tecniche, come il cianotipo e la camera oscura, i suoi lavori oscillano da grandi installazioni a fotografie di grande formato, spesso accompagnati da video che documentano e ripercorrono la lunga gestazione di alcuni progetti. Allo stesso modo, le tematiche affrontate nelle fotografie vanno dal reportage a scatti di spettacoli teatrali quanto di performance. Perché ciò che principalmente interessa Gianmaria De Luca è il racconto che germina dall’entrare in contatto con alcune nuove realtà, dalla conoscenza di storie che, per l’unicità dei dettagli, sono speciali. Muovendosi con disinvoltura tra il bianco e nero e il colore, nei suoi scatti – alcuni, equilibratissimi tableaux vivants – generalmente dominano tinte/neri saturi e atmosfere sospese, atemporali, senza puntuali coordinate geografiche, tra il metafisico e il simbolico, dove i rimandi alla storia dell’arte si fondono l’uno con l’altro (da Caravaggio a Bosch, da Magritte a Velazquez, a Bellini, a Raffaello). Basta osservare le serie Eva Florentia oppure En plein air, per essere risucchiati in una dimensione altra. Mentre Limbo è quello che maggiormente incarna il concetto di come la fotografia, seppur nell’immaginario collettivo resti tuttora ancorata al concetto di veridicità, di testimonianza del reale, possa invece ingannare, e come i preconcetti possano costruire dei falsi miti o falsi mostri.
Tutto ciò fa sì che il suo lavoro non solo interroghi il senso e il significato della fotografia e del fotografare, ma che ne metta in discussione anche l’esito finale. Gli scatti che realizza, oltre a essere spesso un risultato pressoché performativo, sono la maniera più esatta per conoscere, per scoprire cose che non sapeva, riconsegnandole allo spettatore con un profondo senso di condivisione. Una rappresentazione reale quanto verosimile di porzioni di realtà. Ma, al contempo, porta all’estremo quelle tecniche che sono alla base della fotografia stessa, quali la camera oscura, per creare trame e narrazioni. Uno stare nella tradizione senza tradirla, mettendola alla base dei suoi lavori con la stessa meraviglia di un inaspettato rinvenimento, per cristallizzare quel momento unico e irripetibile. Ed è proprio nel rinnovare la tradizione che si vanno a inserire i lavori di Camera obscura – Roma, cui si sta attualmente dedicando: grandi ambienti trasformati in camere oscure attraverso le quali cristallizza panorami o circostanze, come nel caso della Chiesa Nuova e della grotta del Circeo. Mentre nel primo, mediante una laboriosa macchina di pannellature e tamponature delle finestre, ha registrato il panorama circostante, reale ma che presenta degli scarti rispetto alla realtà per la studiata, leggera sovrapposizione di inquadrature, nel secondo, richiamando alla mente il platonico mito, anziché il panorama, sono le ombre stesse dei visitatori della grotta a essere ritratte, sfruttando il fenomeno ottico già presente in natura e tradotto poi meccanicamente dall’uomo con la camera oscura.
Benché i suoi scatti appaiano come qualcosa di noto, di già visto (basti pensare al lavoro di Giorgio Andreotta Calò al MAXXI – di cui lo stesso De Luca ammette di aver colto la portata, o di Valeria Berchicci a Santa Rita, per citare i più recenti in ambito romano), oppure di ridondante, come può essere, appunto, un panorama della Capitale, a renderli stimolanti e avvincenti sono proprio l’approccio e la tecnica, insieme alle dimensioni dei lavori, nonché all’esperienza che Gianmaria De Luca fa vivere agli spettatori. È proprio lo sguardo curioso, pregno di meraviglia, teso a scoprire angoli poco noti perché di non facile accesso, e il desiderio di condividere questi luoghi singolari, che rendono le sue fotografie (nota bene, “stampate” su carta baritata) un racconto non più orale, ma visivo, che fa da sottofondo al viaggio, quasi chagalliano e mistico, sopra i tetti di Roma.