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panorama

Gianfranco Maranto

Petralia Sottana 1983

Vive a Palermo e a Torino

Studio Visit di Daniela Bigi

Gianfranco Maranto appartiene alla scena che si è venuta delineando a Palermo negli ultimi anni. La prima mostra in cui ha palesato la sua ricerca risale al 2012 e a ospitarla fu L’A project space negli spazi di Villa Vincenzina. Per comprendere pienamente il suo lavoro (così come quello di Campostabile o di Genuardi Ruta) non si può non fare riferimento a un contesto di comunanza in cui è stato possibile mettere a fuoco una visione centrata su alcuni valori estetici ed etici che provengono da uno specifico sguardo sulla cultura mediterranea. Oltre i conflitti, in risposta ai conflitti.

Maranto parte dall’interesse per i materiali e per le forme in cui si imbatte quotidianamente. C’è uno stupore nel suo sguardo che se da una parte affonda nei territori della memoria personale, nelle emozioni visive dell’infanzia, dall’altro si riconnette a quell’istanza di elementarietà che ha trovato grandi interpreti nel secondo Novecento.

Adotta procedimenti semplici, fatti di gesti ripetuti con pazienza attraverso i quali conferisce una inattesa capacità costruttiva a materiali di per sé insignificanti, come ad esempio lo scotch, o particolarmente fragili, come la carta velina, o splendidamente riflettenti, come il cellophan colorato, che distoglie dagli utilizzi ordinari e sposta sui terreni dell’espressività, generando interazioni complesse che ridefiniscono lo spazio architettonico.

Il vocabolario è ridotto all’osso: segmenti lineari più o meno lunghi, punti, geometrie essenziali che costruiscono strutture bi o tridimensionali fatte di luce, di colore e di ritmo. Ritmo che occupa un ruolo determinante nei suoi interventi, e a dispetto delle apparenze è tutt’altro che automatico, tutt’altro che impersonale; piuttosto è millimetricamente esperito, minuziosamente osservato.

C’è un’artigianalità divertita nei suoi procedimenti, una fascinazione ludica per il costruire che si fonde spesso con la complicità che egli instaura con le criticità comportamentali di certi materiali («semplici ma non poveri, anzi, altamente tecnologici»). Criticità che l’artista acquisisce come risorse, come opportunità inventive, che lo portano verso scoperte non programmate, verso connessioni inattese. Le direzioni, esplicite o implicite, sono quelle del macrocosmo e del microcosmo e i piani di riflessione quelli del visibile e dell’invisibile. Non è un caso quindi che nella sua produzione convivano lavori di scale diverse, da quella ambientale del molto grande a quella intima del piccolissimo: traducono una visione che parte da ciò che è visibile per arrivare a legarsi con ciò che è invisibile e che attraversa l’universo. Al centro, sempre la luce. In questi mesi sta lavorando anche con il video e ha scelto di utilizzare programmi molto datati, come Paint ad esempio, per ottenere in realtà risultati sofisticati che diano vita a situazioni sinestetiche.

«L’artista deve continuare ad avere una visionarietà, è questo il suo valore politico – mi dice – deve concentrarsi su quello che non conosciamo». «Cosa mi interessa del reale? Probabilmente ciò che esiste ma non vedo».

Mentre ci confrontiamo sulle sue opere, anche quelle del passato, mi ricorda del suo interesse per l’astronomia, per la lunga storia delle decorazioni solari, per gli studi sulla struttura della luce dal punto di vista elettromagnetico e, quindi, energetico. Ed effettivamente, se penso alle sue installazioni site-specific, non posso non sottolineare la loro vocazione immersiva, la loro istanza armonizzatrice, il puntare su una valorizzazione energetica. Mentre coinvolgono psicofisicamente il pubblico, i suoi interventi, nello spazio di fatto, condividono anche uno specifico approccio alla visione, che è insieme aptico e simbolico, giocato essenzialmente tra le polarità della luce e dell’invenzione, i due veri cardini di questa poetica. Potremmo aggiungervi la precarietà, una condizione che traduce un’attitudine mobile del pensiero e una necessità di riscrivere continuamente attraverso il fare. Potremmo leggervi probabilmente un tratto ereditato storicamente, divenuto, per necessità, un carattere antropologico. Ma Maranto ne fa una postura esistenziale propositiva, la usa per cambiare di segno lo stare al mondo.

La criticità del suo lavoro risiede soprattutto nel rischio di essere grossolanamente associato a certe esperienze degli anni Sessanta che potrebbero indurre al fraintendimento. Le sue opere non esprimono direttamente valenze critiche né istanze analitiche. Semmai, e questo è il suo valore, soprattutto nel contesto attuale, valenze ricostruttive, in qualche modo riparatrici, rigenerative, e la sua gestione degli elementi primari del linguaggio artistico, impiantata su tradizioni simboliche che raccontano culture millenarie, esprime una forma di resistenza contro la rassegnazione galoppante, contro la perdita di quelle facoltà che possono ancora permetterci di ragionare intrecciando il visibile con l’invisibile.