Cerca
Close this search box.

panorama

Gennifer Deri

Pietrasanta 1991
Vive e lavora a Stazzema
Studio visit di Angel Moya Garcia

Nel comune di Stazzema, in provincia di Lucca, si trova lo studio di Gennifer Deri. La sua ricerca è caratterizzata dall’ambiguità̀ dell’immagine e dalla convinzione che non esista una percezione oggettiva della realtà, in quanto questa viene significata in base alle condizioni o ai determinismi che il nostro bagaglio educativo-culturale ci impone. La sguardo suggestionato dai costrutti visivi indotti dalla società in cui viviamo, gli automatismi percettivi e le influenze tramandate da un retaggio da cui non possiamo prescindere, vengono evidenziati e messi in discussione. L’artista si avvale del principio di interdisciplinarietà per intrecciare il linguaggio visivo della fotografia con la matematica e con le neuroscienze, situando il corpo modificato e alterato come catalizzatore e strumento di comunicazione.

Interrogandosi sulle potenzialità delle tecnologie digitali, sprigionando le possibilità delle immagini e svincolandosi da un determinato schema visivo attraverso la continua riformulazione dello scatto matrice di partenza, Gennifer Deri riflette sulle condizioni in grado di fornire una nuova visione dell’immagine e dello spazio in cui l’osservatore è immerso. Le sue fotografie sagomate, le composizioni per giustapposizioni o l’interesse per le installazioni immersive, si configurano come un sistema comunicativo in cui l’immagine del corpo funziona proprio come le parole, come espediente per avviare un dialogo continuo tra osservatore e opera. Partendo dall’immagine di un corpo, che non è dato come percezione comune ma piuttosto come percepibile e mutevole, l’artista arriva a una sua elaborazione astratta e infinitesimale attraverso l’uso di diversi software algoritmici, con l’obiettivo di decostruire e modellare in una nuova forma lo spazio-corpo in cui viviamo. Dettagli di parti del corpo umano, decostruiti e poi rimontati, che si presentano espansi nello spazio, articolati su diversi supporti e che possono sembrare tanto paesaggi, quanto forme astratte. Luoghi dell’ambiguità, sviluppati grazie a una serie di applicazioni algoritmiche come Decim8, Glitche, Triangolator, Fragment, Photoshop, in cui le immagini che si generano diventano simbolo della relatività percettiva con cui dovremmo imparare a osservare noi stessi e il mondo che ci circonda.

La ricerca sul corpo, intesa come entità malleabile, perennemente rimodellata da un gioco di trasformazioni personali, relazioni interpersonali e meccanismi strutturali di potere, nonché strettamente connessa alla ricerca scientifica e tecnologica, la collegano in primis alle ricerche sul nuovo materialismo, il biocapitalismo e la necropolitica del duo Pakui/Hardware. Contestualmente, l’interesse centrale verso l’interazione tra il mondo fisico e quello virtuale, esplorando la relazione tra l’oggetto tridimensionale e la sua rappresentazione bidimensionale, cosi come il gioco costante tra superficie, rappresentazione e matericità, la avvicinano al lavoro di Rachel de Joode o Szilvia Bolla.

Attualmente è impegnata nel progetto Decrypt for-Mat, un tentativo ulteriore e più maturo, rispetto ai precedenti, di indurre le persone a mettere in discussione la percezione di sé, la propria identità e a evidenziare la fallacia del considerare una possibile percezione oggettiva della realtà. Fotografie sagomate che si articolano in modo stratificato nello spazio, appropriandosi di esso per dilatare l’ambito di azione. In questo senso, si rivela come l’interesse si stia spostando gradualmente verso l’uscita dalla bidimensionalità per arrivare all’esplosione dell’immagine nello spazio attraverso installazioni ambientali o immersive.

La prima criticità che emerge nel suo lavoro è la possibilità che questa sperimentazione vada a delineare un nuovo codice linguistico che si aggiunge ai vari costrutti visivi già esistenti, invece di metterli in discussione. La scelta di utilizzare gli algoritmi preesistenti nelle varie app utilizzate, non customizzati o creati ad hoc, per manipolare le immagini, potrebbe rendere il lavoro troppo arbitrario, impersonale o anonimo. Allo stesso tempo, l’interesse a uscire dall’ambito fotografico per addentrarsi nello scivoloso mondo delle installazioni immersive potrebbe portare il lavoro in un territorio troppo dispersivo visivamente e rischioso concettualmente. Tuttavia, la presenza persistente, in tutte le immagini, di un ‘dettaglio’ di realtà, che sottrae i lavori all’astrazione totale, assicura una riconoscibilità del codice proposto, permette di decodificarlo e lancia verso un immaginario personale in grado di mettere in discussione la percezione consolidata. La scelta mirata e consapevole degli strumenti all’interno delle app le permettono di ponderare e intervenire nel processo algoritmico, personalizzando e prendendosi la responsabilità del risultato finale, mentre, infine, il rapporto tra contenuto e riformulazione, corpo reale e digitale e immagine e spazio, trovano un equilibrio suggestivo che suscita la curiosità nei confronti di sviluppi successivi.