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panorama

Gaia De Megni

Santa Margherita Ligure 1993
Vive e lavora a Roma e a Portofino
Studio visit di Davide Lunerti
7 marzo 2024

Dall’analisi del precedente studio visit di Paola Nicolin emerge il talento promettente di un’artista giovane, capace di misurarsi con una pratica scultorea e video finemente elaborata, dimostrandosi al contempo all’altezza dei temi di grande importanza di cui tratta: l’eredità del mito, la forza delle immagini e delle narrazioni, l’origine sistemica della violenza, dell’accettazione della stessa e di altre contraddizioni dell’uomo. La totalità di queste tematiche viene destrutturata a partire da un unico campo di studio, quello del mezzo cinematografico.

Il lavoro di De Megni è infatti mirato a prendere in analisi il cinema come dispositivo di costruzione delle identità sociali, utilizzando una metodologia che può ricordare il film Marilyn (2012) di Philippe Parreno, nel processo di ‘scompartimentazione’ di sceneggiatura, personaggio e immagine. Decorticando le stratificazioni di archetipi che dal Ventesimo secolo sono stati strumentalizzati per la propaganda di valori culturali, l’artista fa proprie le lezioni biopolitiche di Foucault, per le quali l’individuo, attraverso il linguaggio e la narrazione dell’ambiente in cui si forma, viene educato in direzione di categorie sociali preesistenti e consolidate. De Megni sovverte le dinamiche di causa-effetto alla radice del nostro rapporto con l’ambiente culturale: non è l’uomo a creare storie, ma le storie a creare l’uomo. Il cinema nella società contemporanea viene interpretato così come ciò che la trasmissione del mito ha significato per le civiltà antiche: un catalizzatore di cultura, che propagava i valori di riferimento della comunità, tramandati di generazione in generazione per la salvaguardia del proprio destino storico. Per consolidare identità culturali che possano reiterarsi nel tempo, la loro natura effimera e volubile viene nascosta, trasmigrando nelle tavole scritte di una legge morale non detta, ma ampiamente rappresentata e condivisa. Allo stesso modo, dalle grandi creazioni del cinema vengono protratti gli stessi schemi narrativi riguardanti le stesse idee di genere, valore e giudizio che determinano gli individui.

L’analisi dei singoli tropi, personaggi e convenzioni del mezzo cinematografico rivelano nel lavoro di De Megni l’origine spesso arbitraria e autocratica di questo procedimento immaginifico, mettendo in discussione la solidità di codici etici e sociali. Nel momento in cui il personaggio di un soldato, con il suo costume, recita le parole suggerite dall’artista, seduta vicino a lui di spalle rispetto al pubblico, l’artista smaschera il meccanismo teatrale, rivelando come dietro alla scena non ci sia una legge scritta da entità superiori, ma una persona in carne e ossa che lavora con la sua immaginazione. Rivelando l’aspetto biologico della narratività occidentale e delle sue scale di valori, De Megni apre la macchina e svela i suoi ingranaggi, mostrando la loro origine fittizia, umana e quindi soggetta al cambiamento e all’errore. Indicativa è l’opera Nulla si sa, tutto si immagina (2018), che presenta due cubi in marmo nero, su cui sono incise delle battute tratte da capolavori della storia del cinema italiano, che si sovrappongono alla proiezione di un mare agitato. L’analogia intende rappresentare come i comportamenti culturali siano fluidi come l’acqua, repentini come le onde del mare; così come si sono formati, un giorno svaniranno, così come si sono costruiti si dissolveranno per riformarsi di nuovo. Questo concetto viene sintetizzato in una commistione formale ben riuscita di elementi dialettici quali liquido e solido, acqua e pietra, naturale e artificiale.

Il personaggio cinematografico che l’artista predilige come oggetto di studio è quello del soldato, icona presente in così numerose rappresentazioni novecentesche da definire lo stereotipo per la società patriarcale: forte, virile, coraggiosa, risoluta. Attualmente l’artista sta lavorando, per la Biennale di Malta, alla performance Afelio (2023), che riprende la ritualità del cambio della guardia all’Arlington National Cemetery in Virginia (USA). Sottolineando la sua pregnante, quanto problematica, componente di sacralizzazione verso l’arma da fuoco – così contestata negli Stati Uniti – la performance si trasforma in una critica più universale alla facilità con cui l’uomo giustifica l’uso della violenza e la guerra. In questo, il linguaggio performativo dell’artista riecheggia sapientemente la propaganda militaristica di stampo cinematografico della prima e soprattutto della seconda guerra mondiale.

Se, in alcune sue opere, i singoli nuclei tematici faticano a emergere, questo è forse indice che alcuni passaggi concettuali non appaiano del tutto a fuoco; De Megni limita il campo d’azione a un singolo soggetto, mostrando a volte le lacune di una ricerca ancora in atto, seppur estremamente vitale. L’artista afferma infatti di essere arrivata a un punto di esaurimento, che la porterà ad affrontare nuovi soggetti nel prossimo futuro.

Riuscendo però a mettere in luce le contraddizioni della cultura occidentale, il lavoro di De Megni mostra come i nostri valori siano fondati sulla pura narrativa e in quanto tali più fluidi e dinamici di quanto si possa pensare. Ci sono pochi altri artisti e artiste che prendono in pugno l’eredità di Foucault in modo così diretto oggi, ed è ancor più rara una sintesi così efficace tra contenuto, di interesse filosofico e sociale, e resa formale, che si uniscono in opere che danno luogo a risvolti piuttosto interessanti nel dibattito contemporaneo.

Foto di Lorenzo Basili
Foto di Tiziano Ercoli