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panorama

Francesco Surdi

Partinico 1986
Vive e lavora ad Alcamo
Studio visit di Daniela Bigi

Una recente personale nel grande capannone di Haus der Kunst, ai Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, mi dà l’occasione per incontrare un artista che lavora da anni nel tessuto palermitano, ma che per un’indole riservata non si può dire che vada a caccia di continue occasioni espositive. Piuttosto, si concentra nel lavoro in studio, adottando una metodologia che fa del caso un valido co-autore, in una accezionalità ampia, che può andare dagli effetti dei fenomeni atmosferici agli esiti prodotti dalla manomissione degli strumenti operativi.

La sua formazione è legata alla pittura (Accademia Abadir di San Martino alle Scale e Accademia di Belle Arti di Palermo) e tra le frequentazioni più assidue c’è la cerchia di artisti che nel corso del tempo si è riunita intorno a Zelle e poi a Van Holden Studio, spazi-progetto fondati da Federico Lupo. Da qualche anno è componente attivo della piattaforma curatoriale Landscape, impegnata in una valorizzazione territoriale che punta a integrare arte contemporanea, tradizioni locali e nuove forme di insegnamento. Di recente con Landscape ha anche co-diretto il Museo d’arte contemporanea di Alcamo.

Se lo studio di Francesco Surdi racconta del suo incessante disegnare, stampare, plasmare, calcare, la personale rarefatta da Haus der Kunst rivela le componenti più concettuali del suo lavoro, nonché l’esigenza di sedimentare, isolare e allo stesso tempo comporre e agglomerare a partire dall’energia evocativa di una matrice. La mostra permette inoltre di comprendere uno dei cardini della sua poetica, ossia la questione, e fors’anche l’emozione, legata all’origine dei segni e al configurarsi delle forme, nella materia così come nell’immaginazione.

I suoi frottage o i calchi di quelle porzioni di oggetti che colpiscono la sua sensibilità, la sua memoria o semplicemente inducono un’idea di paesaggio, hanno a che fare con l’indugiare ‘meravigliato’ in quel terreno di inganno immaginifico in cui natura e artificio – per semplificare – convivono senza soluzione di continuità in un indisgiungibile divenire. Penso in particolare a una scultura che è presente in mostra e che ha una sua omologa in studio. Un conglomerato di argilla e poliuretano che a partire dal calco di un ingranaggio di un motore è stato poi colorato con cromie pastello ed esposto all’azione delle intemperie. A guardarlo da vicino, dopo le trasformazioni subite e con quelle ancora in essere, potrebbe rimandare a una porzione corporea, o a un elemento di un paesaggio marino, o a un relitto, un tronco spiaggiato, ma in realtà non è nulla di tutto questo, oppure magari ne è la somma. Non c’è mimesi, non c’è narrazione, non c’è retorica ecologista seppure tutto prenda avvio da oggetti o immagini residuali. Semmai, c’è il tentativo di comprendere più a fondo i comportamenti delle specie e l’interrogarsi sul‘formarsi delle forme’ nel cuore del nostro tempo. Ma non ci sono didascalie, non troviamo quegli indizi che ci permetterebbero di comprendere da quale regno (animale, vegetale, minerale, industriale, elettronico) provengano quei grumi plastici o segnici che spesso prendono il ritmo della serie. C’è un’indefinitezza che è un risultato, ma che ancor prima vuole essere un assunto. Si avverte lo sgomento della perdita ma anche, oggi più che in passato, l’entusiasmo della trasformazione. Nel suo «ritorno all’organico» non c’è nostalgia, non c’è naïvete e non ci sono gli stereotipi del pensiero diffuso; c’è concentrazione sulle questioni dell’oggi, del domani, sul paesaggio; studio, tensione, proiezione. Avverto il dilemma del voler vivere il proprio tempo in modo totalizzante ma anche la consapevolezza del non poterlo, anzi, del non volerlo sintetizzare in forme definitorie, e tantomeno rappresentative. La sua indipendenza riesce a creare un’attesa, e questo è un valore; il suo ‘formare’ è il riflesso di un inquieto interrogare, non vi è nulla di prometeico.

La forza del lavoro di Surdi, che qualcuno potrebbe anche leggere come debolezza, risiede nell’indeterminatezza e in quel suo accogliere l’opera come forma vivente tra i viventi. E se la dialettica tra la levigatezza mimetica e il non finito di alcune sculture del passato rischiava di condurre a una contemplazione statica della morte, i processi operativi di oggi testimoniano di uno slancio conoscitivo più ampio e più acuto, che meglio restituisce la sua tensione etica.

Foto Leonardo Ruvolo