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panorama

Francesco Simeti

Palermo 1968

Vive e lavora a New York

Studio visit di Elisa Carollo

Francesco Simeti è uno di quegli artisti che da anni vive fuori dall’Italia e che negli USA ha trovato interessanti opportunità in termini di progetti e di commissioni pubbliche. La dimensione pubblica e del site specific, infatti, sono quelle in cui il suo lavoro trova maggiori possibilità espressive e narrative e anche il principale punto di forza. Nutrite da una ricerca iconografica che spazia fra le più varie fonti, epoche e provenienze culturali, le sue opere parlano una lingua ibrida e universale, capace di posizionarsi nello spazio pubblico di grandi città, dove questa stratificazione sincretica di culture e linguaggi è esperienza condivisa quotidiana. Adottando, sulle orme di Aby Warburg, un approccio sincronico e diacronico rispetto alla storia dell’immagine, Simeti concilia nel suo Atlas personale tradizioni iconografiche diverse, mette in scena conflitti fra Antropocene e Biocene, utilizzando supporti come wallpapers, arazzi, ceramiche, video. In questo senso, all’interno della scena dell’arte contemporanea di oggi il lavoro di Simeti si dimostra rilevante per la capacità di creare interventi pubblici destinati a rimanere a servizio delle comunità, veri e propri monumenti che, come l’etimologia stessa rivela, sono strumenti per “ricordare un momento”, una storia, esperienze condivise. Ed è rilevante che sia una ‘firma italiana’ a creare questi “monumenti” della nuova America: attivatori di nuove consapevolezze identitarie all’interno di comunità oggi sempre più compositamente ibride. Un aspetto con cui la cultura americana si confronta da sempre, e che il linguaggio iconologico e sincretico di Simeti sa evidentemente esaltare.

L’artista mi accoglie nel suo studio di Brooklyn che condivide con alcuni designer e artigiani. Anche la sua pratica mantiene viva una certa dimensione artigianale, che si mescola però fluidamente con il lavoro d’archivio e coi nuovi media digitali. Al momento della mia visita sul tavolo c’è una serie di modelli in plastilina per una commissione privata: un grande fregio in gesso per una torre che ripercorrerà l’evoluzione del lavoro umano in relazione con la natura, in parallelo alle diverse epoche del linguaggio visivo. È evidente qui la dimensione artigianale del lavoro, la riattivazione di saperi della tradizione, come anche la capacità e la volontà di toccare temi oggi importanti, come il rapporto lavoro/natura. Il rischio, in quest’opera come in altre della sua produzione, è quello di perdersi in una abbondanza del segno e un non affrontare in modo diretto queste tematiche, preferendo mantenersi su una dimensione più afferente alla tradizione decorativa e meno incline alla frontalità politica dell’arte contemporanea (specialmente americana). Parallelamente Simeti sta finalizzando gli accordi per un’importante opera pubblica a Los Angeles, in cui saranno coinvolti anche altri noti artisti della scena statunitense. La dimensione pubblica del progetto richiede anche un coinvolgimento attivo della comunità locale. In questo Simeti dimostra una certa fortunata esperienza, in quanto la dimensione collaborativa e aperta dell’opera è qualcosa che ha già esplorato in passato in sedi come l’ospedale psichiatrico San Colombano al Lambro, in provincia di Milano, o il carcere di Bollate, cui è seguita la Casa Giglio Onlus di Torino. In quest’ultimo caso – come nella commissione per una scuola a Staten Island – il linguaggio dell’artista rivela un’ulteriore capacità, ovvero quella di parlare ai bambini, creando immaginari e archetipi liberi da precise tradizioni iconografiche e linguistiche.