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panorama

Francesco Lauretta

Ispica 1964

Vive e lavora a Firenze

Studio visit di Angel Moya Garcia,
febbraio 2022

Uno studio invaso di pennelli, vernici, libri e cd di ogni genere si affaccia su un terrazzo nel quartiere di Novoli a Firenze. Quadri appesi alle pareti, odore di vernice fresca e di sigaro, insieme al rumore dei passi di gatti e del traffico circostante ci invitano a entrare nell’universo quotidiano di Francesco Lauretta. L’artista poliedrico di origine siciliana è reduce dalla mostra Festival al MAC di Lissone a cura di Francesca Guerisoli. La prima antologica a lui dedicata, che si snoda attraverso un percorso incentrato quasi esclusivamente sul linguaggio pittorico e che ruota attorno ad alcuni degli elementi ricorrenti della sua ricerca quali i festival e le feste popolari, il folclore e i riti, la musica e la scrittura. 

La mostra di Lissone è riuscita a dare delle indicazioni ben precise, a fare il punto della situazione sulla sua ricerca. L’ultima produzione di Lauretta, la serie Festivale, nasceva per uno spazio a Catania che è stato posticipato e si articolerà intorno ai residui di una festa, evidenziando le tracce e gli scarti che di essa rimangono. L’allestimento previsto sarà estremamente complesso e teatrale, dando vita a un’opera totale, nella convinzione di voler cercare un territorio che non si fermi nel quadro ma che parta da questo per poi esplodere e includere ogni linguaggio possibile. Un progetto in continuo movimento che per la sua presentazione museale è stato ridimensionato per confluire nell’antologica negli spazi di Lissone in cui Lauretta è riuscito a non dover accontentarsi di una mostra incentrata solo ed esclusivamente sulla pittura, seppur questa sia l’elemento nevralgico.

La percezione, mentre parlo con lui, è che la pittura sia solo un mezzo da cui partono diverse declinazioni che si intrecciano senza soluzione di continuità, dalla performance alla scrittura, dalla musica all’installazione, dalla voce alla liturgia, ma che trovano spesso una limitazione in funzione delle risorse economiche, del committente, del contesto, dei galleristi o dei collezionisti, che non sempre sono in grado di seguire, appoggiare o comprendere una tipologia di lavoro che fuoriesca dagli schemi più classici e convenzionali. L’equilibrio tra quello che lui ha in mente e quello che determina la formalizzazione finale di un progetto, purtroppo, non sempre riesce a essere raggiunto, per cui il lavoro emerge il più delle volte come limitato o come limitante rispetto alle aspettative e ai desideri che lui stesso si era prefissato. Nonostante questo, spesso trova le modalità per aggirare questi limiti, come nel caso del nuovo progetto che sta studiando per la Fondazione Menegaz a Teramo, in cui il percorso dovrebbe partire da un discorso nettamente pittorico ma creando una gradualità che possa considerare questo linguaggio non come un ostacolo bensì come una risorsa. Approfittando della struttura del contesto espositivo, sviluppata su tre piani, il percorso dovrebbe snodarsi su tre elementi narrativi: le bagnanti, i riti e le mattanze, attraverso cui si articola un racconto incentrato sul desiderio e sull’ossessione dell’uomo di andare oltre la morte. I riferimenti pittorici per affrontare questi argomenti ripercorrono la storia dell’arte del Novecento e servono a Lauretta come punto di partenza per comporre un’opera totale, basata ancora una volta sulla componente del doppio, della rivisitazione, del déjà vu. Se la sua prima festa rituale e collettiva risale al 2008, a Modica, in questa occasione si dovrebbero ritrovare echi e rimandi alla necessità di lavorare, attraverso un’evoluzione costante, con innesti performativi che possano arricchire l’insieme. L’idea della festa lo interessa in quanto rito sociale che si ripete, come un tempo che si rinnova, si ricompone e sfugge. Un contesto in cui l’individuo può immedesimarsi in un corteo, in una collettività che lo accoglie e lo avvolge, ma allo stesso tempo un fenomeno che controlla massa e potere. 

Un altro progetto a cui sta lavorando attualmente vede la rappresentazione di una serie di notturni torinesi in cui i corpi, abbozzati, quasi onirici, che hanno popolato i bar dopo lo sdoganamento post lockdown, vengono determinati da quattro colori e quattro ambienti diversi. In questi, la pittura cambia, diventa più libera e più inquietante e le figure si inseriscono come presenze anonime o fantasmi creati con l’impasto. Quattro scene che diventano dei momenti liberatori, sospesi e desiderati e che si associano o si configurano come nuove feste popolari, in cui la pittura rappresenta e cancella allo stesso tempo.

Nei riferimenti, nelle prospettive e nella quotidianità di Lauretta, il lavoro è considerato come puro teatro, senza nessun predominio netto di un linguaggio rispetto a un altro, ma il limite o gli ostacoli con cui spesso si trova a combattere diventano elementi estremamente penalizzanti. Sebbene il suo lavoro pittorico si sia inserito nel corso dell’ultimo decennio come uno dei più significativi nel panorama italiano, constato come a lui questo possa non bastare e, dopo una lunga chiacchierata, nemmeno a me.