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panorama

Francesca Pompei

Roma 1978

Vive e lavora a Roma

Studio visit di Daniela Trincia

Vicinissima a Corso Francia, la casa-studio di Francesca Pompei racconta molto dei suoi interessi, dei suoi maestri putativi, del suo percorso formativo. Nata a Roma, da sempre ha viaggiato per il mondo e le architetture del mondo sono divenute i principali soggetti dei suoi scatti. Mentre conclude gli studi in Filosofia estetica all’Università di Roma La Sapienza, con un brevissimo intervallo dedicato anche a quelli di Fisica, inizia ad avvicinarsi alla fotografia, entrando ben presto nell’Associazione italiana fotografi professionisti – TAU Visual (2009). È proprio a Roma che inizia la sua carriera di fotografa, con l’importante commissione, da parte del Vaticano, di tre libri fotografici sulle Cento fontane dei giardini vaticani, nonché, nel 2013, della collaborazione con PhotoVogue. Tra le numerose menzioni, partecipazioni a concorsi fotografici (uno per tutti Premio Celeste), foto pubblicate (da “AD” a “Living-Corriere della Sera”), libri fotografici (Le piazze (in)visibili curato da Marco Delogu), premi (come la recente medaglia di bronzo al Paris Photography Prize), foto per cataloghi (Viaggio attraverso i giardini d’Europa), alcuni dei suoi lavori sono stati esposti in diverse mostre.

Dall’amore per la bellezza, trasmesso dal padre, dai suoi studi e, soprattutto, dalla sua ossessione per il tempo che passa, deriva il suo interesse per la fotografia, uno strumento che le consente di esorcizzare questo pensiero. Perciò, molti dei suoi scatti sono realizzati durante le ore notturne, perché momenti sospesi, in cui lo scorrere della vita sembra rallentare. «La presa dell’istantanea fotografica è l’illusione che attraverso la cristallizzazione dell’immagine io possa fare pace con il mio tempo rispetto a quello che vedo». Benché nelle sue foto la presenza umana sia stata del tutto eliminata, essa è fortemente evocata e gli edifici non sono meri contenitori, né strutture che delimitano spazi, ma ritratti, con i quali cerca di mostrarne il meglio. Essi racchiudono il tempo che scorre e, come luogo collettivo, mantengono una stratificazione temporale, sedimentata sui muri, di coloro che li hanno attraversati. Preservano, dunque, la memoria, e sono testimoni, non solo dell’individuo, ma anche della collettività, della cultura e della società, rispecchiando quello che è l’uomo, ed espressione di quel luogo e della sua identità.

Tuttavia, quello di Francesca Pompei non è un viaggio sulla dimensione urbana, ma uno sguardo su edifici e architetture per coglierne quell’afflato vitale che li rende unici. Non è una catalogazione tipologica (come per Bernd e Hilla Becher), né un archivio documentaristico (come Walker Evans e Diane Arbus), né, tanto meno, una raccolta collezionistica, bensì un «viaggio [non in Italia ma] nel mondo» alla ricerca della singolarità di quegli elementi strutturali che ne tracciano armonia e bellezza, consegnando la memoria di qualcosa che è qui e adesso (e infatti, non ritorna mai sul “luogo del delitto” per rifotografare – o non fotografare – ciò che ha già fotografato), con una eco basilichiana. Architetture enfatizzate nell’astrazione del manufatto, raramente calato nel contesto e nella propria funzione. Attuando una sorta di processo inverso a quello di Salvador Dalì col Ritratto di Mae West utilizzabile come appartamento surrealista (1934-’35), sono gli edifici a essere utilizzabili come ritratti. Attraverso inquadrature mai spinte, né drammatizzazioni, con un uso ponderato della luce, Francesca Pompei restituisce un’aura di tranquilla contemplazione, che non è muto silenzio, piuttosto vitalità ed energia. È offrire spazi entro cui perdersi e nei quali lo sguardo può vagare. Inserendosi, così, nella ricerca della potenzialità della fotografia come espressione e racconto di un vedere, di uno stato d’animo e di un sentire intimo e collettivo.

Nella ricerca di un determinato luogo e di come quel luogo si vuole far raccontare (aspettando a lungo, fin quando non si crea quella particolare congiunzione), ha da poco concluso un reportage su Ankara, su Istanbul, su Abu Dhabi e Basel. Anche se da oltre dieci anni porta avanti un progetto aperto titolato Griglie, con la stessa inquadratura e con la stessa luce, che testimoniano l’evoluzione del concetto umano dell’abitazione, dalla domus fino all’architettura dei nostri giorni, individuando così, gli elementi archetipici diffusi in qualsiasi geografia.

L’esclusiva riproposizione di edifici appare come puro esercizio di stile, come qualcosa di noto e visto, senza elementi di novità né di scarto in avanti, soprattutto a confronto di fotografi sia storicizzati che contemporanei. Ma il suo lavoro guadagna essenza e valore, oltre che per l’equilibrio compositivo (ottenuto da una puntuale inquadratura e bilanciata esposizione), soprattutto per quello spazio contemplativo che le sue foto offrono, pregno di dettagli (una crepa, un determinato fascio di luce, un’ombra, una sagoma, una linea, una pianta, un luccichio) che conducono oltre e ispirano numerose suggestioni e considerazioni, accompagnate dall’attrazione per la scoperta di luoghi, forse sconosciuti o forse non guardati con la giusta attenzione, che potrebbero essere ovunque o anche nel palazzo accanto al nostro.