Prato 1977
Vive e lavora a Pistoia
Studio visit di Lorenzo Madaro
Lo studio di Federico Gori è in un casolare in campagna a Quarrata, in provincia di Pistoia. Una serie di stanze in una vecchia cascina di famiglia – dove è cresciuto – compongono un insieme di piccoli luoghi propedeutici alla concentrazione e al lavoro. Ogni ambiente è utilizzato con una finalità specifica, anche per verificare la tenuta di singole installazioni prima della prova definitiva nello spazio espositivo.
Lavora sulla trasformazione dei materiali in uno specifico tempo, più o meno dilatato, Gori. Osserva differenti habitat, anche quelli preistorici e scomparsi, oggi rintracciabili grazie agli studi degli archeologi, e li ricompone idealmente formalizzando soprattutto bassorilievi, incisioni su rame, sculture di terra, mediandole con processi di lavorazione che di volta in volta transitano in differenti ambiti, da quello della bidimensionalità all’installazione di grande formato, come fu per l’enorme opera installata nel 2013 a Palazzo Strozzi a Firenze per la personale Fragilità e potenza.
È stato questo uno dei momenti più intensi del suo impegno espositivo, così come due anni dopo con la personale a Palazzo Fabroni di Pistoia e, di recente, al Museo nazionale archeologico di Taranto, con il progetto espositivo finanziato con il bando Pac del Ministero della cultura, L’età dell’oro, curato da Eva Degl’Innocenti e da chi scrive.
Il suo è un lavoro totalmente (e volutamente) disconnesso da una specifica collocazione cronologica orientata verso il presente, usa materiali che appartengono alla storia dell’uomo, la terra, il rame, elementi primigeni in grado di sviluppare forme di comunicazione radicali nel loro essere volutamente essenziali.
Rimettendo in circolo materiali e processi metamorfici che appartengono intimamente alla vita della natura e alla sua costante rinascita, Gori nel contesto dell’arte attuale riesce, da perimetri specifici di ambito poverista (nonostante alcune assonanze con il discorso di Giuseppe Penone), a tracciare una sua connessione tra contesti apparentemente distanti, abbattendo le cronologie, affiancando complessità di radice antropologica, risolvendole senza retorica, spaziando tra tecniche e materiali che appartengono al lessico dell’archeologia, che però Gori risolve senza quel peso specifico di un’arte documentativa. In un momento in cui nella dimensione espositiva il rapporto tra l’antico e il contemporaneo è al centro delle riflessioni curatoriali, il progetto espositivo personale L’età dell’oro, concepito da Gori per il Museo nazionale archeologico MArTa di Taranto, è risultato assolutamente pregnante, perché in grado di rivelare un percorso di conoscenza, anzi un vero e proprio itinerario tra i materiali e le forme care alla sua indagine e i reperti custoditi in uno dei musei più importanti del Mediterraneo.
Vivono nella mimesi di una zolla di terra appena vangata le recenti sculture che costituiscono le cosmogonie di 13/12 (Santa Lucia): forme di terra che vivono la dimensione dilatata di una plasticità totalizzante, in grado di generare volumi essenziali e pregnanti. Nello studio si rintracciano anche i grandi polittici concepiti incidendo il rame. Ancora una volta una forma di comunicazione visuale primaria, eppure ricercata, frutto di una progettualità specifica, che l’artista è in grado di elaborare dopo aver messo in azione un lessico composito, che va avanti da anni. I polittici di rame custodiscono pattern ripetuti in più momenti, sono immagini grafiche di fossili e piante estinte. Ecco ancora una volta il tempo, anche nelle ossidazioni naturali che persistono sulle superfici in divenire. Tempo che consuma e costruisce, che concepisce nuove geografie visive e spaziali. Federico Gori conferma la maturità di un lavoro che in questo momento storico si distingue per tipologia e pratica, pur vivendo anche di intime connessioni con la storia dell’arte, anche quella italiana degli anni Sessanta e Settanta. In un altro ambiente dello studio, sta realizzando proprio in questi mesi (ma in realtà il progetto è partito nel 2016) grandi mappe con grafite e china su carta, sviluppate lavorando con uno scienziato britannico, mappando la crosta terrestre attraverso la persistenza del rituale del segno. Ogni specifico tratteggio è legato al ritmo del respiro e al battito cardiaco, quindi quest’opera è una forma di autoritratto meditativo. Ancora una volta la ricerca di Gori riesce a generare una connessione con la vita vegetale, quella degli alberi e più in generale con l’universo. Gli interessa questo intimo rapporto che si genera con una forma dilatata di archeologia, in grado di sviluppare metamorfosi, mutevolezza nel lavoro stesso, togliendo quella che egli stesso definisce «l’arroganza dell’autorialità assoluta». Risiede in questa sua capacità di lasciare che l’opera si trasformi – pensiamo alle lastre in rame o alle sculture di terra, per esempio – uno dei punti di forza del suo lavoro, mentre probabilmente la via su cui dovrà insistere maggiormente è l’allontanamento graduale dalla dimensione dell’immagine, sia anche quella legata ai segni botanici tracciati sulle lastre in rame, discostandosi dalla forma visuale reale per continuare a esprimere il proprio discorso, lasciando ulteriore spazio alla genesi e alla metamorfosi della materia nello spazio.