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panorama

Fabrizio Cicero

Barcellona Pozzo di Gotto 1982
Vive e lavora a Napoli
Studio visit di Alessandra Troncone

Allo studio di Fabrizio Cicero, distante pochi passi dalla Cappella Sansevero, si accede attraverso una porticina che conduce in un seminterrato dalla pianta labirintica. Pur senza addentrarsi, si ha la sensazione di poter percorrere infiniti cunicoli mentre la vita caotica della città scorre immediatamente sopra. Lo spazio di lavoro dell’artista occupa una stanza ampia a ridosso della strada, ma più in basso di circa 4 metri: rumori e odori di ogni sorta si alternano mentre parliamo.

Cicero ha origini siciliane, ha vissuto per molti anni a Roma (dove continua ad avere uno spazio di lavoro al Quadraro come membro del collettivo Off1c1na Extended) e già da qualche tempo è approdato nella città partenopea. Il suo percorso di formazione si è diviso tra arti visive, cinema e teatro, un ambito quest’ultimo nel quale continua a lavorare e che incrocia la sua pratica artistica. È stato infatti l’incontro con la luce e con gli strumenti utili a direzionarla che ha dato vita a un corpus di opere dove proprio la luce diventa protagonista, quale mezzo in grado di costruire significato e completare un racconto. L’aspetto della finzione, che spesso emerge da tale utilizzo, non è un effetto collaterale ma, al contrario, un elemento ricercato per mettere in evidenza l’ambiguità del nostro rapporto con il reale. Tra i lavori più vecchi rivediamo il video Manhattan (2013), una ripresa dal lungomare di Milazzo che, restituendo le luci notturne intermittenti della costa di fronte, suggerisce magicamente l’immagine di New York, poi proiettata su fronde di abete. In Ricordo semi-solido (2018), invece, la proiezione su fumo artificiale costituisce l’ideale continuazione di un albero reciso attraverso lampi di luce che ne restituiscono i rami e la chioma, ricordando una forma che non c’è più. Ridare vita alle cose morte è uno degli input che regola i suoi interventi, come lui stesso spiega. Ma c’è anche la decontestualizzazione di sculture luminose nate con tutt’altri scopi, quali ad esempio le luminarie da strada, che da arredo urbano per eccellenza nelle feste popolari si trasformano in altro: è il caso dell’installazione La notte si avvicina (2016) nella chiesa di Santa Rita a Roma, un paesaggio di stelle comete precipitate ed esplose a contatto con il pavimento; oppure di Minchia (2018), controversa scritta luminosa apparsa nelle strade di Palermo in occasione di Manifesta, o ancora di Ordine nuovo (2019), pezzi di luminarie che collassano in una montagna informe a simboleggiare la precarietà dell’identità nazionale.

Nelle opere più recenti e nelle sperimentazioni in corso, Cicero coniuga luce e disegno, creando punti di contatto e interconnessioni tra i due elementi con esiti talvolta imprevedibili. Un meccanismo da lui progettato movimenta un faro teatrale di grande potenza, portandolo ad avvicinarsi e allontanarsi dai disegni che l’artista gli dà in pasto. Del disegno non me ne frega è il titolo dell’operazione presentata in una mostra collettiva al MLAC di Roma nel 2017, che sottolinea l’alterazione irreversibile subita dal tratto su carta, sottoposto a un processo di combustione. Il procedere per sottrazione si evidenzia anche nell’utilizzo della gomma elettrica con cui l’artista interviene sul fondo nero a carboncino, ottenendo il segno per cancellature che creano punti di luce, o anche nei graffi che incidono la superficie. Gli ultimi lavori in ordine di tempo sono disegni ‘inscatolati’ che, sovrapposti e retroilluminati, generano immagini misteriose, protette dalla rete elettrosaldata che a Napoli viene utilizzata per salvaguardare l’ottone nei citofoni. Nella forma di altarini e con il titolo Spalanca sono apparsi in una recente mostra collettiva alla galleria Unosunove a Roma (gennaio-marzo 2022), mentre altri esemplari sono in lavorazione nello studio.

In assenza di una linea di ricerca enunciata e portante, la pratica di Cicero procede per intuizioni, esperimenti e scoperte che ne sottolineano l’attenzione al dato fenomenologico, più che a quello contenutistico. Anche la volontà critica, laddove messa in campo, appare più un pretesto per concentrarsi su forma ed effetto finali piuttosto che la risposta alla necessità di aprire un vero e proprio dibattito. Le immagini da lui create, soprattutto in ambito installativo, sono dirette ma al tempo stesso evocative, come quella del lampadario gigante crollato in un ambiente saturo di mobili che campeggia in forma di bozzetto su una delle pareti dello studio (Macrosogno, 2020): un (mega)appunto visivo per un’installazione da realizzarsi nel prossimo futuro, con la luce che si fa spazio come una presenza ingombrante tra frammenti di realtà vissuta.